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Può essere considerato stalking l’invio di messaggi Whatsapp?
Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha confermato la condanna alla reclusione per lo stalker che inviava messaggi Whatsapp alla propria ex fidanzata. Prima di esaminare la vicenda, vediamo cosa si intende per stalking, anche se la parola è ormai d’uso comune. Lo stalking è un reato punito dall’art. 612-bis c.p., che consiste nell’attuazione di condotte minatorie o moleste di natura persecutoria e ripetute nel tempo che incidono sulle abitudini di vita della vittima o generano un grave stato di ansia. È entrato a far parte dell’ordinamento penale italiano mediante il d.l. n. 11/2009 (convertito dalla l. n. 38/2009) che ha introdotto appunto all’art. 612-bis c.p., il reato di “atti persecutori”. Fino al 2009, tali condotte sono state inquadrate in reati meno gravi quali, ad esempio, la minaccia e la violenza privata. Queste ultime, tuttavia, si sono dimostrate molto spesso inidonee a garantire una tutela adeguata alle vittime a fronte di condotte illecite caratterizzate da maggiore gravità, sia per la reiterazione delle stesse, sia per gli effetti negativi sulla sfera privata e familiare delle persone offese.
Come si realizza il reato di stalking? La giurisprudenza, in questi anni, ha ritenuto atti persecutori idonei a integrare il delitto anche comportamenti che non necessitano della presenza fisica dello stalker, come ad esempio l’invio di buste, sms, e-mail e messaggi tramite internet, nonché la pubblicazione di post o video a contenuto ingiurioso, sessuale o minaccioso sui social network, oltre al danneggiamento dell’auto della vittima. Ci sono, poi, le aggressioni verbali alla presenza di testimoni e i reiterati apprezzamenti, invii di baci e sguardi insistenti e minacciosi.
Viene considerato comportamento idoneo a configurare un’ipotesi di stalking, il fare ripetute telefonate alla vittima, da questa ritenute non gradite.
E veniamo, ora, alla sentenza della Corte di Cassazione citata all’inizio di questo articolo, che ha trattato il caso di invio di messaggi tramite una delle applicazioni di messaggistica istantanea più utilizzate dei nostri tempi: Whatsapp.
La Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte di appello che ha ritenuto sussistere la responsabilità dell’imputato per il reato di atti persecutori aggravato dall’uso dei mezzi informatici e per il reato di diffamazione, in danno della ex fidanzata.
Per detti reati il responsabile è stato condannato alla pena di 1 anno e 6 mesi di carcere e al pagamento delle spese processuali.
Le prove di cui la Corte di Cassazione ha tenuto conto ai fini del decidere sono state i numerosi messaggi, molti dei quali contenenti insulti, uniti alla condotta della persona offesa, alle dichiarazioni dei testimoni e alle ammissioni dello stesso imputato.
In conclusione, è bene considerare che anche degli insulti contenuti in semplici messaggi possono avere delle gravi conseguenze.