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Il primo di tutti i comandamenti - XXXI domenica del Tempo ordinario

il “primo dei comandamenti” citato da Gesù, preso dal brano del Deuteronomio proposto come prima lettura (Dt 6,2-6), costituisce il cuore della preghiera ebraica detta “Shemà Israel”

Il primo di tutti i comandamenti - XXXI domenica del Tempo ordinario

Dopo l’ultima importante tappa di Gerico (Mc 10,46-52) Gesù conclude il suo viaggio entrando trionfalmente a Gerusalemme (Mc 11,1-11). In seguito a una prima veloce visita del tempio, si ferma di notte presso il Monte degli Ulivi, verso Betania. Per qualche tempo, poi, poi durante il giorno si ferma nel tempio per stare in dialogo con coloro che lo frequentavano. È questo il contesto complessivo dei capitoli undici e dodici del Vangelo di Marco nei quali si colloca anche il brano di questa domenica (Mc 12,28b-34). Uno degli scribi presenti lì presenti appare sinceramente interessato ad ascoltare, avendo sentito la risposta data da Gesù ai sadducei che lo interrogavano sul tema della risurrezione: “visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: ‘Qual è il primo di tutti i comandamenti?’” (v. 28).

La domanda relativa al “più importante” dei comandamenti era molto sentita tra gli ebrei osservanti dell’epoca: molti precetti biblici, infatti, si aggiungevano ai “dieci” comandamenti consegnati da Dio a Mosè sul Sinai; inoltre, quelli biblici erano accompagnati da altre prescrizioni dalle diverse tradizioni interpretative. Com’è possibile osservarli tutti? Quali sono le vere priorità? Gesù risponde indicando non solo “il primo”, ma anche “il secondo”, lasciando intendere che i due sono strettamente connessi: non è possibile amare il Signore “con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”, se non ami anche “il tuo prossimo come te stesso”.

La parte più originale della risposta di Gesù, in effetti, è costituita proprio da questo “secondo comandamento”, che riprende un versetto centrale del Libro del Levitico (Lv 19,18), poco conosciuto da noi cristiani, ma che sta al centro della Torah, ossia dei cinque libri che fanno da fondamento a tutti gli altri scritti dell’Antico Testamento. Tra i molti precetti contenuti in quei libri, questo appare decisivo, in quanto costituisce una sorta di cartina al tornasole infallibile, come afferma in maniera molto chiara anche la Prima lettera di Giovanni: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). Per san Paolo, questo “secondo” è addirittura “l’unico”: “qualsiasi altro comandamento si ricapitola in questa parola: amerai il tuo prossimo come te stesso” (Rm 13,9). Si può “comandare” di amare Dio? San Paolo, che pure proviene dalla più stretta osservanza farisaica, sembra dire di no.

 

Ascolta Israele

Eppure, il “primo dei comandamenti” citato da Gesù, preso dal brano del Deuteronomio proposto come prima lettura (Dt 6,2-6), costituisce il cuore della preghiera ebraica detta “Shemà Israel”, che deve essere recitata almeno due volte al giorno (al mattino e alla sera) da ogni pio Israelita. A dire il vero, tale preghiera presenta non uno, ma “due” grandi comandamenti che si fondano su un unico imprescindibile dato di fede: “il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore” (Dt 6,4); come a dire che la cosa più importante non è il “comandamento” dell’amore verso Dio, quanto piuttosto il riconoscimento – teorico e pratico – del fatto che egli è “l’unico Dio”. Su tale fede si appoggia anche l’altro comando, che precede e rende possibile il comandamento dell’amore: “Ascolta Israele”. L’ascolto, che è allo stesso tempo anche obbedienza, è fondamentale perché si regga l’impegno dell’amore verso Dio. Non si può amare Dio, se non si impara ad ascoltare la sua parola di salvezza, di perdono, di fedeltà oltre ogni merito. Non si riuscirà mai ad amare Dio se non si nutre il fiducioso abbandono alla sua volontà nell’obbedienza alla sua Parola. Per questo, dunque, innanzitutto: “ascolta”!

Il sommo sacerdote che ci voleva

La lettera agli Ebrei, anche in questa domenica, continua a incoraggiare un atteggiamento di abbandono fiducioso nelle mani di Gesù, sommo sacerdote (Eb 7,23-28). Egli, diversamente dai sommi sacerdoti umani, è “santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli” (v. 26). Egli ha donato se stesso come “sacrificio” per liberarci dai nostri peccati; e lo ha fatto “una volta per tutte”. Per quel che compete a Dio, grazie a questo dono perfetto del suo Figlio, i nostri peccati sono stati definitivamente perdonati: non si pentirà mai del perdono che ci ha offerto.

Solo la nostra libertà, che rimane piena fino alla fine, può decidere di non accogliere il suo perdono. Per parte sua, invece, Gesù lo ha offerto, una volta per sempre, senza pentimento.

 

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