Pentecoste - Si compie la promessa di Gesù
Quanto c’è bisogno di invocare con insistenza il dono dello Spirito Santo, specialmente in questo nostro tempo! Solo così saremo capaci di “parlare in altre lingue”, ossia di farci intendere anche da chi non è addentro al linguaggio “ecclesiale”.

Nella Pentecoste si compie la promessa di Gesù: salito al cielo, non ha lasciato soli i suoi discepoli, ma ha inviato loro lo Spirito Paràclito, che guida con sicurezza la sua Chiesa, sempre e in ogni luogo.
Anche voi date testimonianza
Nella Messa del giorno di Pentecoste il Vangelo di Giovanni è stato tagliato e ricucito (Gv 15,26-27; 16,12-15) in modo da riportare insieme due delle cinque promesse dello Spirito Santo raccolte nel lungo discorso di addio di Gesù (cf. Gv 14,15-17; 14,25-26; 15,26-27; 16,7-11; 16,13-15).
La terza, con cui si apre il brano odierno, presenta alcune importanti caratteristiche dello Spirito. Innanzitutto, è il “Paràclito”, colui che “viene chiamato presso di sé” in almeno tre contesti diversi: nei momenti di malattia e di lutto, come persona amica che porta consolazione; in tribunale, come avvocato difensore; e dietro le quinte di un teatro, dove c’è sempre qualcuno incaricato di far entrare in scena gli attori, quando sono presi dal panico. In secondo luogo, è Spirito della verità, inviato da Gesù, che procede dal Padre: la “verità” è quella detta da Gesù (cf. Gv 8,40; 45), ma è anche Gesù stesso: “Io sono la via, la verità e le vita” (Gv 14,6). Infatti, la terza caratteristica è proprio quella di dare testimonianza “di” Gesù. Consolati di fronte alle prove, difesi dalle false accuse del maligno e incoraggiati dallo Spirito, anche i discepoli possono rendere testimonianza alla verità, ossia a Gesù stesso.
La quinta promessa offre un’ultima importante rassicurazione: lo Spirito annuncerà progressivamente, quando i discepoli saranno capaci di “portarne il peso”, tutto ciò che riguarda Gesù e, così facendo, permetterà loro di accogliere ciò che si può conoscere del Padre, in quanto “tutto quello che il Padre possiede è mio” (Gv 16,15).
Cominciarono a parlare in altre lingue
Il giorno di Pentecoste, raccontato dall’evangelista Luca nel secondo volume della sua opera straordinaria (At 2,1-11), ci rende partecipi della prima realizzazione concreta e potente di queste promesse di Gesù. Erano ancora tutti radunati a Gerusalemme, nella stanza al piano superiore dove si erano raccolti per l’ultima cena con Gesù (Lc 22,12), probabilmente ancora un po’ impauriti, come lascia intendere l’evangelista Giovanni (Gv 20,19), quando lo Spirito li sorprende con una forza che li pervade: non più rattristati dalla mancanza del maestro, senza paura di essere accusati, si lasciano spingere fuori ad annunciare “le grandi opere di Dio”. Il contenuto del loro annuncio sarà riportato in parte poco dopo, quando il narratore lascerà la parola a Pietro (At 2,14). Questi dimostra una capacità di rileggere la propria esperienza e tutta la vicenda di Gesù, alla luce delle Scritture antiche, che appare davvero sorprendente. Rileggere le pagine della Bibbia che presentano “il lungo dialogo di rivelazione tra Dio e il suo Popolo (A. Marangon), fino alle vicende riguardanti Gesù, permette di annunciare che proprio Lui è in grado di interpretare il presente e di farci cogliere le direzioni verso le quali siamo chiamati a orientare la nostra vita. Quanto c’è bisogno di invocare con insistenza il dono dello Spirito Santo, specialmente in questo nostro tempo! Solo così saremo capaci di “parlare in altre lingue”, ossia di farci intendere anche da chi non è addentro al linguaggio “ecclesiale”.
Il frutto dello Spirito invece è amore
San Paolo, a conclusione della sua lettera ai Galati (Gal 5,16-25), evidenzia come la ricerca di un “altro vangelo” (Gal 1,6), apparentemente più rassicurante, perché “a misura d’uomo” (Gal 1,11) si dimostri fuorviante, poiché fa crescere nella comunità solamente le “opere della carne” (Gal 5,19-21): l’idolatria, i “disordini” personali di ogni tipo e, segnale più evidente di tutti, le divisioni e i conflitti feroci all’interno della stessa comunità. Al contrario, invece, chi accoglie il Vangelo nella sua integrità, si lascia guidare dallo Spirito e ne gusta “il frutto”. Sì, al singolare. Anche se poi vengono elencate varie virtù, infatti, Paolo parla volutamente di “frutto”, al singolare. Si tratta di un frutto, e dunque di qualche cosa che l’uomo non può “creare da sé”, al contrario delle “opere della carne”, delle quali gli uomini sono particolarmente esperti. Un frutto è sempre un “dono”: può essere coltivato, custodito, accolto e valorizzato, ma non può essere “creato” dall’uomo. E poi è unico, ossia unificante: l’amore “è” gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé.
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