Quello Stabat “iuxta Crucem”
Lo “Stabat Mater” racconta che la “Passio Christi” è una “Passio Mariae”, consumata “iuxta crucem”, presso la croce, lo stesso dolore, la stessa condanna, lo stesso patibolo.

A distanza di otto secoli mantiene ancora intatta la sua iconica sacralità, tutta la freschezza compositiva e l’intensa passionalità con le quali Jacopone da Todi (1236?-1306), al quale tradizionalmente viene attribuita, l’ha pensato e composto.
Un testo, anzi una “sequenza”, come correttamente va definita, che nelle due parti che la compongono è tutta da pregare e meditare.
Nella sua pur profonda semplicità, essa è un’amara, realistica versione al femminile della Passione di Cristo, un’autentica “Passio Mariae”, un “ricamo di lacrime”, come l’hanno definito, una riflessione sul mistero della Vergine Addolorata, tutta imperniata su quello “Stabat” iniziale che dà un senso all’intera composizione e indica, nella forma temporale scelta, una condizione continuativa nel tempo, quasi un tratto di eternità.
Lo “Stabat Mater” racconta che la “Passio Cristi” è una “Passio Mariae”, consumata “iuxta crucem”, presso la croce, lo stesso dolore, la stessa condanna, lo stesso patibolo.
Maria “stabat”, sta ai piedi della Croce, senza lasciarsi sopraffare dal dolore e dal rifiuto della volontà di Dio. “Stabat” anche se accorata (“maerebat et dolebat”), “afflicta” e “dolentem”.
Non si dispera, Maria, non si esagita, non si alza a difenderlo, non lo compiange, non interroga, non chiede il perché di quanto si sta consumando sotto i suoi occhi e nelle pieghe della sua anima, non aspetta parole e sembra aver persino deposto tutti i suoi diritti di madre, ma ha fiducia nel Figlio, anche quando lo vede fallire, solo, tremendamente solo e abbandonato (“desolatum”) da tutti i suoi amici, qualcuno dei quali lo ha rinnegato più di una volta.
“Stabat” Maria, come colta in una dimensione statuaria del dolore, chiusa nel suo lancinante silenzio di madre davanti al Figlio sofferente e “morientem” e in quello “stare” Maria ha ancora prova della profezia di Simeone: “E a te una spada trafiggerà l’anima”, assaporando l’amaro dramma della donna, della madre che ha generato un Figlio per la vita, e adesso lo vede sulla croce, condannato da innocente.
“Stabat”, “dolorosa”, “afflicta”, ormai priva di lacrime e il suo silenzio è simile a quello di coloro che le fanno compagnia: la sorella, Maria di Cleofa, Maria Maddalena, e il discepolo amato da suo Figlio; è semplicemente lì, ai piedi della croce.
E quello “stare” è unico e solenne, perché “stare” è la cosa più difficile e dolorosa per una madre: è il contrario di fuggire, di sottrarsi, di intromettersi. Assolutamente impotente, ma non se ne va, pur sapendo che il suo stare lì è inutile.
Maria corredentrice
Quello “stabat” ci dice che, dove si trova la croce, possiamo essere certi di trovare anche Maria, che ci svela che, davanti all’angelo Gabriele, con quel “Ecco la serva del Signore, si faccia di me come hai detto”, lei diventa la principale collaboratrice nella storia della salvezza e muove i primi passi, prima di salire, anche lei, sul Golgota, “iuxta crucem”, accanto al figlio adorato.
Davanti al tragico, provvidenziale evento del Golgota si snoda la seconda parte della lauda di Jacopone, con quell’accorato “Eia, mater, fons amoris, me sentire vim doloris
fac, ut tecum lugeam” (O Madre, fonte dell’Amore, fa’ ch’io senta il tuo dolore ed insieme a te pianga).
La contemplazione cede il posto alla preghiera che legittima quel domandarsi “chinon piangerebbe” (“Quis est homo, qui non fleret?”) al vedere la madre di Cristo in tanto supplizio? Chi non si rattristerebbe nel contemplare la madre dolente accanto al Figlio sofferente (“Quis non posset contristari, Christi Matrem contemplari dolentem cum Filio?)? Chi non vorrebbe chiedere a Maria “Fammi piangere intensamente con Te o Madre, per condividere il tuo dolore? Chi non vorrebbe stare in tua compagnia? Chi non vorrebbe essere protetto dalla Croce? E’ l’epilogo dello “Stabat Mater”, la lezione più antica, ma forse più vera della nostra Pasqua.
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