Editoriali
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Editoriale. Marciare divisi e colpire uniti

La disaffezione sempre più evidente degli italiani verso le istituzioni democratiche, da dove parte? Probabilmente è necessaria una riflessione forte sui motivi per i quali la nostra democrazia è malata e incapace di rigenerarsi, quali possibili rimedi per stimolare e motivare la partecipazione dei cittadini alla vita e al destino del Paese?

Editoriale. Marciare divisi e colpire uniti

Il primo dato che salta agli occhi delle elezioni regionali in Lombardia e nel Lazio è la scarsa affluenza alle urne: in media, sono andati a votare circa quattro elettori su dieci. Una débâcle, che mette a nudo la crescente disaffezione dei cittadini verso le istituzioni democratiche, sia a livello nazionale che locale. Per questo non dovrebbe esultare nessuno: né il centro destra, che ha confermato, a cinque mesi di distanza dalle elezioni Politiche del 2022, il suo trend positivo; né qualche partito di opposizione, come il Pd, speranzoso per aver avuto, dopo tanti sondaggi negativi, un certo recupero in percentuale. Dopo un primo momento di esultanza o di rammarico, in tutti i partiti dovrebbe, però, subentrare l’impegno per avviare una seria riflessione, non tanto sui flussi elettorali, ma sui motivi per cui la nostra democrazia è malata e incapace di rigenerarsi, cercando di individuare i possibili rimedi per stimolare e motivare la partecipazione dei cittadini alla vita e al destino del Paese.

L’unità del centro destra

I tre principali partiti del centro destra, assai diversi tra loro e con non poche tensioni e contraddizioni su diversi aspetti (basti solo pensare sull’invio di armi in Ucraina e sui rapporti con Putin), hanno marciato divisi ma, al momento delle elezioni, hanno colpito uniti e hanno vinto. In ogni caso, sia Matteo Salvini che Silvio Berlusconi, molto ridimensionati l’anno scorso (e anche quest’anno) dal responso delle urne, sono stati costretti ad accettare, obtorto collo, la leadership di Giorgia Meloni e la sua agenda politica. Che poi, sul fronte dell’economia e dei rapporti con l’Europa e con la Nato, non si discosta molto da quella di Mario Draghi (ci sono in gioco troppi milioni del Pnnr). Piuttosto, e non potrebbe essere diversamente, in campo di politiche sociali, di giustizia e occupazione del potere, la Meloni e i suoi alleati, stanno attuando lentamente scelte e orientamenti tipicamente di destra-centro, conformemente alle visioni politiche e agli interessi dei loro partiti e di quanti li hanno votati, consegnando il Paese nelle loro mani. In ogni caso, nonostante l’iniziale professione di fede di Meloni vero l’Europa e la Nato, in politica estera stanno già emergendo alcune prevedibili crepe e ambiguità. Basti pensare alle incomprensioni con la Francia di Emmanuel Macron e la Germania di Olaf Scholz (Paesi con i quali invece, per il bene dell’Europa e per non ritrovarci isolati, abbiamo bisogno di stringere solide alleanze), nonché le strizzatine d’occhio verso i vecchi amici sovranisti e antieuropeisti del gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Cechia e Slovacchia, per la verità oggi divisi rispetto alla guerra), tanto cari anche a Salvini.

Frammentazione del centro sinistra

Il problema principale sta, piuttosto, nell’autolesionismo e nella miopia politica dei leader dei tre principali partiti di opposizione: Enrico Letta, Giuseppe Conte, Carlo Calenda-Matteo Renzi. Come alle Politiche dell’anno scorso, anche in questa tornata elettorale si sono presentati divisi, perdendo così alla grande. Non c’è poi da meravigliarsi se gli elettori, di fronte alla prospettiva di una sicura e schiacciante vittoria del centro destra e con una così frastagliata e rissosa opposizione, abbiano disertato le urne. Di questo passo e senza l’impegno a ripristinare una fattiva collaborazione, le destre possono continuare a fare in Parlamento sonni tranquilli e mettere più di una ipoteca per il governo del Paese dei prossimi dieci anni.

Ci sembra che, al momento, a parte Calenda e Renzi, sempre più ondivaghi e in cerca di sponde per racimolare voti, le maggiori responsabilità per lo sbando e l’attuale irrilevanza dell’opposizione, ricadano principalmente sui due principali partiti che sostenevano il Governo Draghi, rappresentati da Letta e Conte. L’anno scorso, in occasione delle elezioni Politiche, abbiamo più volte rimarcato al segretario Pd di essersi troppo aggrappato all’agenda Draghi e di aver rifiutato ogni possibile alleanza, almeno elettorale, con quei 5S che avevano avuto il torto di aver innescato la crisi di Governo. Riteniamo che, con una tale scelta categorica abbia, alla fine, danneggiato il Pd il quale, da allora, ha perso inesorabilmente consensi e, a tutt’oggi, fatica a rialzare la testa e a trovare quella identità politica che non ha mai avuto chiara fin dal suo nascere nel 2007 e che, forse, nemmeno l’imminente Congresso riuscirà a risolvere. 

Allo stesso tempo Conte, forse irretito dalle cesure di Letta verso i 5S e galvanizzato dall’idea di poter strappare voti a sinistra del Pd, non ha voluto saperne di trovare una seppur minima alleanza elettorale tra tutto il centro sinistra, grazie alla quale, di sicuro, sarebbe stato possibile conquistare più di qualche collegio uninominale impedendo così, almeno in Senato, la vittoria schiacciante del centro destra.

Una divisione rischiosa

I rissosi partiti dell’area di centro sinistra, che attende di conoscere il nome del nuovo leader del Pd che uscirà dalle primarie del 26 febbraio, a furia di veti incrociati e demonizzazioni reciproche, hanno consegnato su un piatto d’oro una strepitosa vittoria alla destra di Giorgia Meloni, sia a livello nazionale che nelle recenti Regionali. Si sono comportati come i poveri quattro capponi di Renzo i quali, non paghi di subire le sue scariche di rabbia, si sono pure ingegnati per tutto il viaggio a beccarsi l’uno con l’altro. Se i leader di tali partiti continueranno di questo passo, si troveranno ben presto tutti emaciati e finiranno bolliti nel pentolone del centro destra.

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