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Anche un medico trevigiano lavora nell'inferno di Ebola

Il dottor Giovanni Putoto responsabile della Programmazione Cuamm, è in queste settimane a a Pujehun (Sierra Leone): “E’ come un’ossessione insopprimibile che non ti abbandona e non ti dà pace. Non la vedi, ma è dappertutto che ti insegue e ti perseguita.

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Anche un medico trevigiano lavora nell'inferno di Ebola

Mentre l’Organizzazione mondiale della sanità aggiorna i dati sulle vittime di Ebola in Africa Occidentale in un tragico conteggio - il bilancio delle vittime mercoledì scorso era arrivato a 4.447 mentre sono quasi 9.000 i contagiati - Medici con l’Africa Cuamm ha inviato nei giorni scorsi due operatori italiani a rinforzo degli altri 4 presenti a Pujehun (Sierra Leone), che coordinano un gruppo di circa 200 operatori locali. Si tratta del medico trevigiano Giovanni Putoto, responsabile della Programmazione Cuamm e del dott. Matteo Bottecchia, inviato con funzioni di assistente al capo progetto. Nel comunicato inviato dal Cuamm si legge: “E’ come un’ossessione insopprimibile che non ti abbandona e non ti dà pace. Non la vedi, ma è dappertutto che ti insegue e ti perseguita” dichiara il dott. Potuto all’arrivo nel Paese -. I dati si rincorrono uno dopo l’altro e sono sempre più negativi. I casi aumentano senza disuguaglianze sociali, di genere o di generazione. Le vittime sono uomini e donne, bambini e anziani, laici e chierici, ricchi e poveri, contadini o abitanti delle città. Tutti indistintamente cercano un segno di speranza, un segno positivo, una prospettiva semplice: tornare ad una vita normale, dignitosa, pacificata con la natura”, conclude il medico.
Ed ecco come si è presentata Freetown, la capitale della Sierra Leone, agli occhi di Bottecchia: “E’ un Paese disorientato, la presenza di Ebola si legge fin dai primi passi fuori dall’aeromobile, accolti da acqua clorinata per lavarsi le mani, materiale informativo sull’infezione, check point sanitari appena dopo i controlli doganali. L’infezione ha trovato una breccia tra le ferite di un Paese sovrastato da problemi profondi, con un sistema sanitario fragile e impreparato ad un compito così grande come combattere quest’epidemia senza precedenti. Nelle aree più periferiche come Pujehun le vie di collegamento tra una miriade di piccoli centri sparsi sul territorio sono al limite della praticabilità, e il materiale di protezione e trattamento per il Centro di Salute di Zimmi, il più vicino all’attuale focolaio, arriva solo attraversando il fiume Moa a bordo di una barca a remi. Sembra una lotta impari, quella tra la rapidità di diffusione del virus e la lentezza a cui si è costretti anche per fornire servizi sanitari di base”.
Oltre al collasso del sistema sanitario ed economico dei Paesi dell’Africa occidentale, esiste la grave realtà degli orfani di questo virus, che devono affrontare la perdita dei familiari e anche superare i preconcetti della cultura tribale che li allontana per paura di stregoneria e magia nera. Il Governo, con l’aiuto delle ong, ha avviato un registro degli orfani a causa dell’ebola: finora sono stati localizzati 310 bambini e bambine non contagiati, a cui se ne aggiungono altri 600/700 che rimangono in quarantena. La Missione Salesiana in Sierra Leone ha aperto una settimana fa a Monrovia la prima casa di accoglienza per orfani sopravvissuti al virus. Quella che prima era una scuola elementare è diventato un Centro di assistenza per 60 bambini e ragazzi tra i 2 e i 17 anni.

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