Centrafrica: credere nella riconciliazione
Il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui è impegnato da anni nella difficile pacificazione della Repubblica Centrafricana. Anche con gesti dirompenti. L'intervista

In queste settimane è stato in Italia il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, che, in questa breve intervista, ci racconta che, per la Repubblica Centrafricana, “l’unica vera via è credere nella riconciliazione”.
Sono ormai dieci anni che il Paese (rande due volte l’Italia), incastonato al centro dell’Africa, non conosce pace. Da sempre quello della riconciliazione e della fratellanza è un imperativo imprescindibile per Nzapalainga, arcivescovo metropolita di Bangui dal 2012, proveniente da una famiglia di dieci figli con mamma protestante e papà cattolico.
Scoppiato per motivi politici e geostrategici, ma soprattutto per il controllo delle ingenti risorse minerarie del Paese, il conflitto centrafricano si è enormemente complicato anche per la presenza di forze straniere, ribelli, mercenari e fondamentalisti islamici, e più recentemente del famigerato gruppo Wagner, assoldato dal governo, che proprio qui, ancor prima che in Ucraina, si è distinto per le atrocità commesse specialmente nei confronti dei civili.
Stragi, torture, stupri, devastazioni: il conflitto centrafricano ha provocato migliaia di morti e feriti e milioni di sfollati e profughi. Quasi tre quarti dei 6 milioni di abitanti, infatti, sono stati costretti a fuggire dalle loro abitazioni: un esodo di massa e una crisi umanitaria apocalittici, di cui troppe poche volte abbiamo sentito parlare.
Il cardinale Nzapalainga, considerato una delle figure più importanti della Chiesa cattolica oggi in Africa, ha rischiato più volte la vita e ha fatto scelte non sempre comprese dalla sua gente, come quella di ospitare nella sua casa l’imam e la sua famiglia - in un periodo in cui il conflitto aveva preso una pericolosa connotazione etnico-religiosa - o come quando ha fondato la Piattaforma interreligiosa per il dialogo (che ha ottenuto il Premio per i diritti umani delle Nazioni Unite nel 2015), per testimoniare il valore della nonviolenza e del dialogo come strumenti di riconciliazione.
Attualmente è il cardinale più giovane al mondo, chiamato a questa carica da papa Francesco nel 2016.
Eminenza, è in uscita in questi giorni nelle librerie “La mia lotta per la pace. A mani nude contro la guerra in Centrafrica” (Libreria editrice vaticana, pp. 160, euro 15) un’autobiografia del suo impegno per la pace. Come si può costruire la pace, oggi, a mani nude nel cuore dell’Africa?
Quando nel 2012 si verificarono degli attacchi e delle violenze contro preti e suore cattoliche nell’ovest del Paese, il responsabile dell’islam in Centrafrica, così come l’imam musulmano a capo dei fedeli islamici, vennero a trovarmi per dirmi che erano nettamente contrari a quella violenza, e che dovevamo impegnarci per far sì che le religioni non venissero strumentalizzate nella guerra e dalla politica. Personalmente, ho ospitato per sei mesi il capo dei musulmani a casa mia, sfollato dalla sua, per dare testimonianza concreta che siamo tutti fratelli, come Cristo ci ha insegnato. Quando visitavamo insieme, noi tre capi religiosi, i villaggi per cercare di condannare la violenza e dire che le religioni non spingono alla guerra e all’odio verso l’altro, mi sono trovato davanti alcuni cristiani, anche molto accesi, che mi dicevano: “Tu dici tanto di non odiare gli altri, ma guarda cosa hanno fatto a quei cattolici, a quei preti e quelle suore!”. Mi ripetevano che la mia non era la posizione giusta, che gli altri sono dei nemici e che io sbagliavo a chiedere di non farsi trascinare dalla spirale della vendetta. Ma io ho continuato a insistere nel ripetere che no, la violenza non è la strada giusta; che sì, siamo chiamati ad aprirci agli altri e ad andare loro incontro, anche quando ci fanno del male. Questo è quello che Gesù ha chiesto ai propri discepoli, e che chiede anche a noi, oggi.
Dal colpo di Stato del 2013 agli accordi di pace del febbraio 2019 alla crisi politico-militare scaturita dalle elezioni del dicembre 2020 la Repubblica Centrafricana è in preda a una crisi prolungata e complessa. Come, a suo avviso, il Paese potrebbe avviarsi per un processo di pacificazione duraturo?
La divisione è il lavoro del diavolo, il nostro lavoro di religiosi è quello di unire, di far sì che le persone aprano il proprio cuore all’altro. Unire e non dividere: ecco, la nostra vocazione. Dio è padre di tutti e solo se siamo disarmati siamo veramente suoi figli. In questo modo diventiamo quello che siamo chiamati a essere, fratelli e sorelle su un’unica terra. E non persone che cercano di distruggere gli altri. In ogni caso, fino al 2019 l’80% del territorio nazionale era sotto le mani dei ribelli e il 20% in quelle del governo; ora le percentuali si sono rovesciate. Oggi i ribelli stanno rintanati nella foresta. La gente può ricominciare a vivere, a lavorare, a coltivare i campi. Dobbiamo sostenere questo tentativo di tornare alla normalità.
Per aiutarci a capire: qual è̀ la composizione religiosa della Rca?
La maggioranza è̀ protestante, un po’ più del 50%; più del 30% sono cattolici, c’è̀ un 10% musulmano, gli altri sono animisti.
E il dialogo coinvolge tutti?
Sì, è aperto a tutti. Ognuno può portare il proprio contributo religioso, per costruire un mondo di fraternità.
Venendo a quello che accade in Europa, secondo lei la guerra in Ucraina potrebbe avere un effetto domino in Africa?
Questo non lo so. Penso, però, che chi mena i fili di tante guerre che si svolgono in Africa si trovi in Europa, perché dietro a conflitti e scontri vi è chi vuole acquistare diamanti e oro, o mettere le mani su giacimenti di gas e altre materie prime. Esistono indubbiamente interessi di mercato molto vasti. Bisogna, invece, far sì che il rispetto della dignità di ogni persona umana sia il valore principale nella scena politica, così come il fatto che ogni persona possa vivere dignitosamente. Perché si arrivi a questo c’è bisogno di buon governo, bisogna superare il tribalismo, il nepotismo e dare spazio a tutti, nell’interesse del popolo, senza lasciare campo libero in maniera assoluta a interessi privati.
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