Ecuador, lo scontro tra Governo e indigeni si radicalizza. Quito "invasa" da indigeni. Don Vallotto: "Si rischia punto di non ritorno"
La Conferenza episcopale ecuadoriana (Cee) ha emesso nel tardo pomeriggio di ieri (ora locale) una breve nota nella quale si chiede con forza “al Governo e alle organizzazioni indigene e sociali di sedersi a dialogare, con proposte concrete che diano beneficio a tutti i settori del Paese”.

Nonostante il filo del dialogo sia stato tenuto aperto dalla mediazione di Conferenza episcopale, Onu e quattro Università, si fa sempre più intricata la situazione in Ecuador. Mentre stanno emergendo nuove denunce sulla repressione governativa nel corso delle manifestazioni dei giorni scorsi, continuano ad arrivare a Quito carovane di indigeni, ormai accampati, oltre che nel tradizionale sito del parque del Arbolito, anche nelle vicine università, che hanno offerto loro ospitalità. E le posizioni rischiano di cristallizzarsi, mentre proseguono manifestazioni e repressione . Un’informativa de “Consejo Defensorial” e di Amnesty International parla di 1.070 persone arrestate, tra le quali 460 nella provincia di Pichincha, quella della Capitale, e 370 in quella di Guayas, il cui capoluogo è Guayaquil. La Defensoría del Pueblo riporta che 855 persone ferite sono state assistite in 9 giorni di protesta.
In tale contesto, la Conferenza episcopale ecuadoriana (Cee) ha emesso nel tardo pomeriggio di ieri (ora locale) una breve nota nella quale si chiede con forza “al Governo e alle organizzazioni indigene e sociali di sedersi a dialogare, con proposte concrete che diano beneficio a tutti i settori del Paese”. I vescovi si uniscono nella preghiera e nella solidarietà con “le persone ferite o che hanno perso la vita e i loro familiari”. Ancora, scrivono i vescovi nella breve nota del Consiglio di presidenza della Cee, “condanniamo qualsiasi tipo di violenza, perché siamo fratelli e amiamo la pace”.
La testimonianza di don Vallotto
“Siamo a un punto di svolta e per certi aspetti di non ritorno. Colgo un inasprimento del conflitto, che ha ormai due attori: gli indigeni della Sierra e dell’Oriente amazzonico da una parte e il Governo dall’altra”. Lo afferma, da Quito, don Giuliano Vallotto, missionario fidei donum della diocesi di Treviso. “È stata la città ad aprire otto giorni fa il conflitto – prosegue don Vallotto –. È, però la resistenza la sta facendo il mondo indigeno. Da giovedì hanno iniziato ad affluire verso Quito altre migliaia di indigeni, che si spostano con autobus, con camion superaffollati, con camionette e che entrano in città per gruppi. Alcune università hanno aperto le porte a questa massa di gente: la Politecnica Salesiana, la Cattolica, la Centrale, la Andina… il centro operativo e d’incontro resta sempre la Casa della Cultura, con il vicino parco dell’Arbolito”.
Prosegue il sacerdote: È incredibile la maniera in cui la città sta reagendo. Oggi (venerdì, ndr) sono stato alla casa della cultura e all’Università Centrale per portare viveri, coperte e vestiti… È sorprendente l’organizzazione della solidarietà a cui sto assistendo. Le suore del centro pastorale della Gatazo (uno dei nostri due centri) già da tre giorni stanno raccogliendo di tutto. Un gruppo di persone fa la cernita e nel pomeriggio con due camionette portano il tutto nei centri di raccolta, dove un’ organizzazione di giovani e di volontari distribuisce nei diversi luoghi dove le persone vanno a passare la notte di ritorno dalle manifestazioni, durante le quali non sono mancati scontri durissimi con militari e Polizia”.
“Forse lunedì sarà proclamata una giornata di mobilitazione di tutto il Paese. Per il momento viviamo alla giornata”, spiega don Giuliano. “Per la prima volta hanno passato, solamente di sfuggita, le immagini delle esequie tributate a uno dei capi indigeni massacrato dalle forze governative. L’indignazione ha raggiunto il livello di guardia. Mi dicono che a Pujili, paese natale di questa persona, mai si è vista tanta rabbia tra la gente. Oggi il movimento si proponeva di occupare il Parlamento. Non so se ci riusciranno e se ce la faranno sarà a prezzo altissimo”, spiega il sacerdote.
Ma di fronte alla morte, “gli indigeni non cedono: per secoli la loro vita è stata una quasi-morte. E il potere è assente. Né il presidente, né il Parlamento, né il sindaco si fanno sentire: il primo si è rifugiato a Guayaquil, prigioniero dei poteri più forti di lui, il secondo è chiuso, il terzo pare si occupi di altre cose. Il potere ha fatto la scelta di presentarsi con la faccia più feroce: quella dei gas lacrimogeni e dei fucili. È incredibile costatare che lo scontro fisico si concentra attorno ai palazzi del potere, il resto della capitale pare estraneo al conflitto se non fosse per questa solidarietà diffusa che ho potuto costatare con i miei occhi. Ma in Ecuador non c’è solamente la capitale. Le province a maggioranza indigena sono tutte in agitazione. Oggi (venerdì, ndr), per esempio, è stato occupato il governatorato di Tungurahua, quello di Riobamba già da otto giorni è in mano dei manifestanti. Si tratta di una sollevazione a carattere nazionale”.
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