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La protesta indigena ribolle in Ecuador. Don Vallotto da Quito: "Dopo il Covid i poveri si sono trovati più poveri di prima"

Il missionario racconta: "Già sette vittime. La situazione si sta facendo drammatica. Il gruppo dei parlamentari vicini all’ex presidente Correa ha deciso di avviare le pratiche per chiedere la destituzione del presidente". Scotton (docente a Cuenca): "Repressioni ed eccessi".

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La protesta indigena ribolle in Ecuador. Don Vallotto da Quito: "Dopo il Covid i poveri si sono trovati più poveri di prima"

È salito a sette il bilancio delle vittime delle proteste in Ecuador, dopo 12 giorni di sollevazione popolare da parte degli indigeni, su convocazione del loro principale organismo di rappresentanza, il Conaie. Una protesta che, nonostante i reiterati inviti al dialogo (che per un momento giovedì sembravano aver fatto breccia), in particolare giunti dall’episcopato ecuadoriano, rischia di estendersi (di fatto il Paese è bloccato) e radicalizzarsi. “Tra giovedì e venerdì notte – racconta da Quito, capitale del Paese ed epicentro della protesta, don Giuliano Vallotto, missionario fidei donum della diocesi di Treviso – c’è stata una forte repressione da parte della polizia. Ci sono stati due morti e molti feriti. La situazione si sta facendo drammatica. Il gruppo dei parlamentari vicini all’ex presidente Correa ha deciso di avviare le pratiche per chiedere la destituzione del presidente. Guillermo Lasso. L’iter prevede la convocazione in aula del presidente per ascoltare le sue ragioni e poi la votazione che deve essere sostenuta dai due terzi dei parlamentari. A oggi non pare esserci una maggioranza, ma la situazione in generale si sta inasprendo. In questo momento stanno piovendo sulla folla bombe lacrimogene in maniera immotivata. I tassisti si sono aggiunti allo sciopero. Con i due morti di ieri, già sono 7 le vite perdute”. Invece, nel sud di Quito, “dove noi abitiamo – prosegue il missionario – viviamo in un silenzio irreale. Tacciono le scuole elementari e superiori, il traffico è quasi inesistente, tutto si concentra nel centro storico”.

Damiano Scotton, originario di Camposampiero, docente di Relazioni internazionali all’Università dell’Azuay, con sede a Cuenca, spiega al Sir: “Quasi tutte le regioni sono interessate, la città dove vivo, Cuenca, anche se è praticamente sotto assedio, è in questo momento un’isola felice. L’epicentro della protesta è a Quito, ma anche in altre zone del Paese ci sono stati degli eccessi, sia da parte delle Forze di polizia sia da parte dei manifestanti che, per esempio, ad Atrato, hanno inquinato con olio bollente le cisterne che contenevano acqua potabile per l’approvvigionamento della popolazione. Da parte dei vescovi, varie università e organizzazioni è venuto un invito al dialogo. Il presidente Lasso ha accettato, a condizione che la protesta si interrompa, ma gli indigeni al momento restano in stato d’agitazione e ribadiscono le loro dieci richieste. In realtà alcune, come il prezzo della benzina, possono essere risolte facilmente, altre invece riguardano politiche sociali di più ampio respiro”. Il ricordo va alla protesta del 2019, che fu più intensa, di quella attuale, almeno al momento, e si risolse con la mediazione dei vescovi.

Dalla Conferenza episcopale ecuadoriana è arrivato un forte appello al dialogo, visto come la via “più intelligente e fraterna”, prevedendo l’incontro il Governo ed i movimenti indigeni e sociali. “Interpretando i sentimenti della maggior parte degli ecuadoriani che desiderano e chiedono la pace – hanno affermato i Vescovi -, diverse organizzazioni della società civile propongono al Governo e alle organizzazioni e ai movimenti sociali, una tregua, basata sull’impegno concreto, accompagnata da osservatori e garanti di alto profilo, a livello nazionale e internazionale, ritenuti adatti dalle parti”. La condizione perché il tavolo diretto si sviluppi, secondo l’episcopato, è che si apra un canale diretto di dialogo tra Governo e Conaie; ma anche la sospensione della protesta e la ripresa immediata della consegna di viveri in tutto il Paese. “Noi ci offriamo come osservatori di tutto questo processo”, hanno ribadito i vescovi.

Continua don Giuliano Vallotto: “A un anno dalla elezione del presidente Lasso, un banchiere che applica teorie neo-liberiste, i poveri si trovano più poveri di prima. Tutto è aumentato, anche le riserve dello Stato, depositate per aumentare le garanzie necessarie per i futuri investimenti, invece di essere usate per comprare le medicine per gli ospedali, o per migliorare il pessimo stato delle vie di comunicazione, o per l’istruzione, dalle elementari all’università, o dando prestiti a basso interesse ai contadini, o per calibrare il prezzo dei combustibili in un Paese che vende petrolio. Questo sta creando enormi difficoltà nelle famiglie povere già duramente provate dalla pandemia. Tra tutte le fasce della popolazione gli indigeni rappresentano sicuramente le categorie più impoverite dell’Ecuador”. “Sono stati gli indigeni, per primi, in una indifferenza inizialmente generale, a muoversi come, del resto è nella tradizione relativamente recente della storia del popolo ecuadoriano. Hanno presentato 10 punti al governo sui quali non è più necessario dialogare, ma decidere. Il Governo ha risposto con un documento di 16 pagine. Ma per gli indigeni non è questione di parlare o di scrivere, ma di concretizzare. E ora arrivano da tutte le parti, gridando i loro slogan, cantando, suonando con i loro strumenti tradizionali, ma si trovano davanti schieramenti di truppe militari e forze di polizia, che hanno l’ordine di dissolvere in qualunque modo questa valanga umana”, afferma il missionario.

Che prosegue: "A che si deve, mi chiedo, la mirabile resistenza degli indigeni, che ora non sono più soli? Io credo che innanzitutto questo si deve alle loro insopportabili condizioni di vita. Tuttavia essi non sono più poveri della grande massa dei contadini dell'Ecuador. Ci deve essere qualche cos'altro del Dna del mondo indigeno, che li porta a esprimersi in forme "spontaneamente" collettive. A me pare che si potrebbe esplorare nella loro cultura millenaria quel "collettivismo" innato dentro del quale nascono, vivono e muoiono. L'indigeno non si sente mai solo, appartiene a un gruppo sociale che magari è molto frazionato ma in presenza di problemi comuni o di aggressioni si compatta in forme vaste.. Benedetti indigeni poveri e solidali, portatori di valori straordinari che tendono a sparire anche tra le loro giovani generazioni, assorbite da una cultura postmoderna che agisce come un tritacarne. Ma finché riescono a conservare queste caratteristiche, essi continueranno a essere tra i primi e principali protagonisti del cambiamento, nonostante le volgarissime offese e accuse che una mentalità coloniale continua a esprimersi anche attraverso i social".

Fonte: Sir
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