Per i cubani sarà un Natale straordinario
Fra Roberto Carboni, segretario generale per la formazione dei Francescani minori conventuali, è stato per dodici anni a Cuba. La notizia del “disgelo” tra l’isola e gli Stati Uniti lo riempie di gioia perché apre un futuro di speranza

Lo sapeva che prima o poi sarebbe successo, fra Roberto, ma pensava che questa svolta sarebbe arrivata dopo la morte dei due fratelli Castro. Invece, ecco la sorpresa, il 17 dicembre, l’annuncio in contemporanea dei due leader, Barak Obama e Raul Castro, della normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti d’America e Cuba dopo 53 anni. Le nuove misure concordate prevedono, oltre allo scambio di prigionieri, l’apertura di rappresentanze diplomatiche e l’abolizione di restrizioni sui viaggi da e verso l’isola. Punto di arrivo sarà la fine dell’embargo, il “bloqueo”, per la quale però sarà necessario il via libera del Congresso americano.
Per dodici anni fra Roberto Carboni, 56 anni, francescano, nato e cresciuto in un’isola, la Sardegna, ha vissuto il suo impegno missionario in un’altra isola, che la storia di questi ultimi 50 anni ha reso ancora più chiusa e separata dal resto del mondo. Per molti anni docente di psicologia e responsabile della formazione permanente dei frati (oggi è Segretario generale per la formazione), nel 2001, con due confratelli marchigiani, don Roberto ha fondato la missione nella città di Matanzas, con una grande parrocchia di 30 mila abitanti. Un’esperienza che ha portato frutto, visto che da cinque anni i frati sono presenti anche a L’Avana dove hanno una parrocchia di 50 mila abitanti, più una chiesa nel centro storico e una piccola comunità vocazionale con alcuni giovani frati cubani e altri che stanno iniziando il loro cammino.
Fra Roberto, che cosa ha provato quando ha appreso la notizia?
Questa notizia era attesa. Ogni anno si diceva: questa è la volta buona. Ma poi non se ne faceva nulla. Io pensavo che forse sarebbe successo alla morte dei fratelli Castro. E’ stata quindi una sorpresa, ma che mi ha riempito di gioia, conoscendo le sofferenze e anche la morte che l’embargo ha prodotto in questi anni.
Come cambierà la vita dei cubani?
Cambieranno molte cose, anche se non immediatamente. In primo luogo il modo di vedere se stessi: non più accerchiati, assediati, vittime del grande nemico yankee, causa di tutti i mali. Adesso si potrà forse guardare con maggiore realismo ai problemi creati dall’embargo e agli altri frutto della politica sociale interna, delle scelte economiche a volte catastrofiche. Cambierà forse anche l’economia. Senza più il divieto per gli statunitensi di viaggiare a Cuba, entrerà un flusso notevole di denaro. Certo, bisognerà vedere poi se questo arriverà a beneficiare la gente. Non bisogna dimenticare che sino ad oggi l’economia è stata centralizzata: tutto è dello Stato.
Crede che si aprirà per i giovani un futuro nel loro Paese?
Uno dei sogni segreti dei giovani cubani è stato sempre quello di varcare lo stretto, arrivare a Miami, a volte con qualsiasi mezzo e purtroppo anche a prezzo della vita. Ma anche rimanendo a Cuba, avere soldi e uscire dalle ristrettezze. Credo che ci vorrà tempo per risistemare sia antropologicamente che socialmente e dal punto di vista lavorativo la situazione. Ma certo questa nuova situazione apre altre porte, fa intravedere possibilità. Vedremo come le trattative andranno avanti e quale sarà l’aiuto che gli Stati Uniti possono offrire, in cambio, come già hanno detto, di un avanzamento nel cammino dei diritti umani.
I cubani sono un popolo molto religioso. Come vivono la loro fede?
Sì, i cubani sono un popolo con una natura portata alla spiritualità. A volte questa spiritualità entra in contatto con la religione (la chiesa cattolica, lo spiritismo, la santeria - una sintesi di tradizione africane con elementi del cattolicesimo -, le chiese protestanti…). Naturalmente oltre 50 anni di ateismo hanno lasciato il segno, però in tutti, anche non credenti, ho trovato rispetto per la religione. Quelli che credono esprimono la loro fede con allegria, con gioia, con creatività. La Chiesa cattolica a Cuba è mossa molto dai laici, forse anche per la scarsità di clero.
In che cosa è impegnata la vostra missione? E’ vero che è nata in seguito alla visita di alcuni collaboratori di Fidel Castro ad Assisi nel 1996?
La nostra missione è iniziata il 6 novembre 2001. Siamo arrivati la sera dopo il passaggio dell’uragano Michelle. All’inizio siamo stati a Matanzas, dove il vescovo ci ha affidato una chiesa senza sacerdote da quasi 20 anni. Abbiamo dovuto aggiustarla e restaurare le stanze per viverci. Abbiamo aspettato quasi sette anni prima di prendere le prime vocazioni cubane. Volevamo prima capire la situazione, capire il cubano, entrare nella loro storia. Dal 2009 a L’Avana abbiamo aperto una comunità vocazionale. Abbiamo già i primi 4 frati cubani; altri giovani stanno facendo il cammino vocazionale. Nel 1996 Fidel Castro era a Roma, al vertice della Fao. Avrebbe voluto andare ad Assisi ma non fu possibile per ragioni di sicurezza. Mandò, però, alcuni suoi stretti collaboratori che furono accolti dai frati con cordialità. Visitarono la basilica e il convento. Credo che quell’avvenimento abbia lasciato l’idea che, come frati minori conventuali, eravamo persone accoglienti, senza pregiudizi. E questo a Cuba qualche volta ci ha aiutato, facilitando il dialogo con il Governo e specialmente con l’Ufficio delegato per la Religione.
In questa svolta hanno avuto un ruolo importantissimo tre pontefici: Giovanni Paolo II che incontrò Castro a L’Avana nel 1998; papa Benedetto, che incontrò Raul nel 2012; infine, il lavoro da grande tessitore di papa Francesco, il cui ruolo è stato riconosciuto sia da Obama che da Raul Castro. Qual è la situazione della Chiesa cattolica a Cuba e come pensa che questa importante mediazione potrà favorire la sua missione pastorale?
Da tanto tempo la chiesa cattolica, specialmente per opera del cardinale Jaime Ortega Alamino, si è mossa sul cammino del dialogo, dell’avvicinamento. Non mi stupirei se fra i protagonisti di questo storico evento, volontariamente decisi a rimanere nell’ombra, ci fosse proprio il cardinal Ortega col suo paziente lavorio. Tante volte dalla sua bocca ho sentito dire che la via della contrapposizione dura fra Chiesa e Governo non era un bene per nessuno e che la Chiesa doveva proporsi come mediatrice di riconciliazione fra tutti i cubani. Inoltre, da sempre la Chiesa ha detto che l’embargo era inutile e portava solo sofferenza alla povera gente. Però è anche vero che il viaggio di Giovanni Paolo II ha aperto le porte. Fu lui a dire con forza nel 1998: Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba. Del ruolo giocato da papa Francesco abbiamo due autorevoli testimonianze, sia di Raul Castro che di Obama, nei rispettivi discorsi televisivi alla nazione. Per quanto riguarda il futuro dell’opera della Chiesa in Cuba, la strada è già segnata: continuare la sua missione di educatrice di coscienze, soprattutto dei giovani, e farsi mediatrice di riconciliazione fra tutti i cubani: quelli dell’isola e quelli della diaspora.
Come considera per la sua vita i dodici anni trascorsi a Cuba?
L’esperienza a Cuba è stata ed è per me una grande grazia del Signore. Mi hanno insegnato molto i cubani, sia i parrocchiani, che i seminaristi di cui ero padre spirituale e insegnante, sia la gente che quotidianamente incontravo nella chiesa che abbiamo nel centro storico di L’Avana, dedicata a san Francesco. Mi hanno insegnato la gratuità, la solidarietà fra poveri, il rispetto per gli anziani, la capacità di affrontare le situazioni difficili con la speranza e la voglia di andare avanti. I cubani hanno potuto celebrare di nuovo il Natale, dopo moltissimi anni di divieto, solo con la visita di Giovanni Paolo II, nel 1998. Quel Natale è rimasto nella storia, ma certo quello di quest’anno forse lo supererà, perché associato al cambiamento e alla speranza.
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