Ad un anno dalla guerra in Ucraina, le parole di don Moreno Cattelan da Kiev "Pacificare le coscienze"
Intervista sulla guerra al missionario padovano della Piccola opera della Divina Provvidenza di don Orione, da alcuni anni a servizio nella Chiesa greco cattolica ucraina, tra Leopoli (L’viv) e la capitale Kiev (Kyiv).

E’ passato un anno dall’invasione russa dell’Ucraina. Un anno di guerra, di morti, di distruzioni, di sofferenze, di cui non si vede la fine. Ma anche un anno di solidarietà, di vicinanza, di accoglienza. Mentre le diplomazie sono in stallo e cresce la minaccia di una escalation nucleare del conflitto, la popolazione civile cerca di andare avanti, di ritagliarsi una quotidianità possibile, come ci racconta don Moreno Cattelan, missionario padovano della Piccola opera della Divina Provvidenza di Don Orione, da alcuni anni a servizio nella Chiesa greco cattolica ucraina, tra Leopoli (L’viv) e la capitale Kiev (Kyiv). Dall’inizio della guerra i missionari orionini hanno accolto molte persone in fuga, soprattutto donne e bambini, all’interno delle loro case.
Don Moreno, che cosa sostiene la speranza della popolazione, di voi missionari che condividete la vita con loro?
Davvero non si vede la fine di questa tragedia. Credo sia questo il primo dato da registrare facendo un rapido bilancio di questo primo anno di guerra. Doveva essere una “operazione speciale” attraverso la quale, nel giro di qualche giorno l’intera nazione, partendo dalla capitale Kyiv, sarebbe stata interamente conquistata. Le cose non sono andate come previsto e, se da un lato questa “aggressione” ha avuto un esito inaspettato, dall’altro ha seminato morte e distruzione da ambo le parti con la ricaduta, anche a livello internazionale, che tutti ben conosciamo. Questi sono i frutti della guerra. Di ogni guerra. A prescindere dal movente o dalla scintilla che ha innescato il conflitto. La guerra, anche questa, resta una inutile strage. Un non senso. Papa Francesco, nei suoi numerosi interventi, la definisce, appunto, una guerra insensata. E ci ricorda quelle che sono le conseguenze di ogni guerra: non la vittoria di una o dell’altra fazione, direttamente coinvolte, ma una sconfitta per l’intera umanità. Noi questa sconfitta l’abbiamo percepita fin dai primi giorni del conflitto e soprattutto da quando abbiamo constatato che ogni tentativo di mediazione, a vari livelli, è risultato vano, se non controproducente. Giorno dopo giorno la nostra gente vive questo “disagio” che deriva non solo dal conflitto esteriore, quello visibile quotidianamente e combattuto nelle trincee del Donbass, o dalla sensazione che si prova dopo il suono delle sirene che annunciano un imminente bombardamento, ma da quel sentimento di rivalsa, di animosità, che spesso sfocia nell’odio, annidato nel cuore e nella coscienza della popolazione. Tentiamo di innescare un processo di pace e riconciliazione. Ma un tale processo richiede tempo e pazienza, e soprattutto la fine del conflitto, per poter ricostruire case e coscienze. Ci sostiene la certezza che qualsiasi male dell’uomo, Dio lo può trasformare in bellezza. È in questo che poniamo la nostra speranza, qualsiasi cosa succeda.
Che cosa manca per far fare il passo decisivo alla pace?
Anzitutto la volontà. Non siamo degli utopisti. Ogni guerra coinvolge non solo i diretti interessati, ma una compagnia di attori che “dietro le quinte”, per interessi noti od occulti, fomentano e alimentano i contrasti. Le condizioni, presentate da ambo le parti per raggiungere un possibile accordo di pace, non sono accettabili, come si rimpallano i diretti interessati. Gli organismi internazionali, deputati a questo compito, hanno dimostrato la loro debolezza, incapacità o mancata volontà. Come per ogni tipo di malattia si può innescare un processo di prevenzione, così dovrebbe essere per la guerra. Nel nostro caso, sono sempre attuali i pilastri “preventivi” che sostengono ogni processo di pace, ovvero la ricerca sincera della verità, della giustizia, della solidarietà che sfociano nella libertà e autodeterminazione di un popolo. In secondo luogo, se chiediamo alla gente comune se spera in una pace possibile, ti risponderà che non è una speranza, ma una certezza: “la certezza che vinceremo”. A mio avviso questa certezza della vittoria è una strada a senso unico. Richiede aiuti adeguati per poter contrastare il nemico, per vincere o perlomeno competere alla pari. Capisco bene che è una questione non risolvibile con una battuta ma vorrei, a questo riguardo, citare il grande scrittore russo Lev Tolstoj: “Come non si può spegnere il fuoco con il fuoco, né asciugare l’acqua con l’acqua, così non si può eliminare la violenza con la violenza”. Insomma, “non c’è un cammino, una via per la pace. Il cammino, la via è la pace”.
Da subito lei ha tenuto un diario quotidiano su Facebook chiamandolo “Diario di pace”, per raccontare il bene che vedeva e che riuscivate insieme a far crescere, senza mai nascondere ciò che succedeva intorno a voi. Un modo per non chiudere gli occhi, ma anche per guardare oltre?
Ogni tanto rileggo qualche pagina di questo diario che, appunto, tra le righe della cronaca segnata da allarmi, bombardamenti, paura e senso della precarietà, metteva in luce tanti aspetti positivi, avvenimenti, gesti di accoglienza, pace e vicinanza che segnavano le nostre giornate. Una cronaca che scrivevo a sera tardi, qualche volta il giorno dopo. Per me era quasi un esame di coscienza sul nostro operato. So che era seguito da diverse persone che poi lo condividevano. Mi hanno anche detto che in una classe, nel Trevigiano, veniva letto dalla maestra prima di iniziare la lezione. Era un modo per comunicare e far conoscere come la guerra era da noi vissuta su quello che abbiamo sempre chiamato il “fronte della carità”. Un’esperienza condivisa con i profughi da noi ospitati a L’viv, una cinquantina, e soprattutto l’aiuto dato a quasi 750 persone, mamme con i bambini, molti dei quali con patologie, persone disabili e anziani, che ha permesso loro di raggiungere un posto sicuro in Italia dove lo sguardo, pur rimanendo fisso sulle persone care e sugli affetti lasciati in patria, poteva guardare oltre, perché illuminato dalla solidarietà che percepivano intorno a loro.
Com’è oggi la situazione nelle vostre missioni, a L’viv e a Kiev? Che tipo di attività riuscite a fare?
A partire dalla metà di ottobre 2022 è iniziata una fase della guerra del tutto particolare. Con l’utilizzo dei droni venivano (e vengono tutt’ora) colpite a scadenza quasi settimanale le infrastrutture cosiddette sensibili, soprattutto quelle elettriche. Ciò ha compromesso il regolare esercizio di erogazione della corrente, soprattutto nelle grandi città. Complice l’inverno, si è creata una situazione di enorme disagio, dal momento che questo servizio indispensabile viene garantito solo qualche ora al giorno. Non è stato facile adattarsi a questa nuova situazione, ma tale inconveniente non ha compromesso la continuazione delle nostre attività a L’viv come qui a Kyiv, grazie anche alla generosità di tanti amici e benefattori che ci hanno dato la possibilità di acquistare dei generatori che utilizziamo durante i blackout. Pertanto prosegue l’assistenza che si fa al gruppo di giovani disabili a L’viv ed il servizio Caritas per circa 200 persone alle quali viene consegnato settimanalmente un pacco alimentare. Durante tutto il periodo della guerra non sono state sospese le attività parrocchiali. L’oratorio ha sempre funzionato tanto da garantire, la scorsa estate, anche il Grest per i ragazzi. Ugualmente a Kyiv, dove siamo ritornati ad agosto, sono continuate le attività dell’oratorio, soprattutto dopo l’inizio dell’anno scolastico. Anche qui prestiamo un servizio ai senzatetto, fornendo loro un pasto caldo due volte alla settimana. Siamo partiti avvicinando una quarantina di senzatetto e ora distribuiamo già 150 pasti. Garantiamo così un minimo di sussistenza non solo ai meno abbienti, ma anche ad altre persone che, a causa della guerra, sono cadute nella rete della povertà. Un servizio che coinvolge anche un discreto numero di volontari, tra l’altro appartenenti a diverse confessioni. Ma l’opera più difficile e importante è far vivere questo momento di grande sofferenza e incertezza alla luce del Vangelo.
Che cosa chiedono gli ucraini all’Italia e al mondo?
Domenica 29 gennaio scorso, trovandomi in Italia, ero presente alla marcia della pace organizzata dalle diocesi di Padova, Treviso e Vicenza (nella foto, don Moreno intervistato per la diretta di TeleChiara, ndr). Mi ha meravigliato la forte partecipazione a distanza di quasi un anno dall’inizio del conflitto e quando ormai le notizie sulla guerra non sono più in prima pagina. Un evidente segno che le parole di papa Francesco, “Non abituiamoci alla guerra e alla violenza”, hanno ancora presa nel cuore e nella coscienza di molti. Per cui, prima della richiesta, credo che ogni ucraino abbia il dovere di ringraziare quanti in questi mesi hanno dimostrato vicinanza e solidarietà verso coloro che sono rimasti in patria come nei confronti dei diversi milioni di persone che hanno dovuto lasciare l’Ucraina e sono stati accolti non come profughi, ma come fratelli in varie parti del mondo. La richiesta la vorrei esprimere con queste parole di Kristina, una giovane artista fuggita e poi rientrata in Ucraina, che ci testimonia la fatica quotidiana di chi vive in prima persona questa tragedia e cerca il modo di combattere l’odio: “Credo sia importante far capire che per noi questa, ora, non è solo una guerra per il territorio, per la nostra casa, per la nostra terra. È una guerra per la libertà di essere noi stessi. Questa battaglia dura da molto tempo: direi, da quando l’Ucraina era parte dell’Unione Sovietica e dell’Impero russo. Cioè, siamo sempre stati all’interno di qualcosa di più grosso di noi che ci schiacciava. Ed è proprio per questo che stiamo lottando adesso: per il diritto di essere noi stessi e vivere come vogliamo. E in questo senso la gente è sicura di non poter perdere…Tutti adesso hanno capito che la guerra non finirà domani, e neanche dopodomani. È molto difficile fare pronostici sul futuro, al massimo si fanno piani per un mese, non di più, perché nessuno sa quale allarme aereo sarà l’ultimo. Forse la vera questione non è nemmeno la durata, ma il fatto che, anche quando vinceremo, il nostro vicino non scomparirà. Ci sono tante persone convinte di fare un’opera buona, e che vivono nel paradigma dei liberatori. Capiamo che dobbiamo andare avanti tenendo presente che avremo sempre questo vicino di casa e cercando di capire cosa fare affinché questo vicino non ci ripensi e non attacchi di nuovo”. Come dicevo, prima di un lavoro delicato, ma necessario, per guarire le ferite, e prima di rifare le case, serve ricostruire le coscienze.
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