Donne in carcere: figure dimenticate
Persone detenute, ma anche lavoratrici, volontarie, consacrate che entrano nelle strutture. Considerate residuali in un mondo già ai margini. Se ne è discusso in un convegno a Roma lo scorso fine settimana

Donne che vivono il carcere, persone detenute, ma anche volontarie, operatrici, agenti, consacrate che operano all’interno degli istituti. Figure femminili che rischiano di essere dimenticate, etichettate come fenomeno residuale in un mondo già considerato ai margini della società.
Se ne è parlato durante un convegno a Roma gli scorsi 20 e 21 maggio. A raccontarci ciò che è emerso dalla due giorni è Domenica “Chicca” Sacchetti, consacrata dell’Istituto ausiliare diocesano di Milano, che da 12 anni presta servizio nella sezione femminile di San Vittore ed è referente per la regione Lombardia e nel coordinamento nazionale delle consacrate che operano nelle carceri. “Il carcere femminile - spiega - è una realtà molto piccola, solo il 4,2% delle persone detenute sono donne e per questo motivo sono praticamente dimenticate. Ci sono solo quattro strutture femminili, gli altri spazi sono sezioni del maschile. Il carcere, di per sé, è una struttura maschile e mancano, dunque, tutte le accortezze che potrebbero riportarlo a una dimensione adatta alla sfera femminile. Non ci sono specchi, ma spesso neanche sanitari per l’igiene intima, così viene svilita la femminilità. Il carcere è ai margini della società, e purtroppo spesso anche il mondo ecclesiale se ne dimentica. Sembra calare sulle persone che hanno commesso un reato come un sepolcro. Pensiamo che la sicurezza sociale arrivi dalla reclusione, senza alcuna rieducazione e tentativo di reinserimento, così le persone escono incattivite”. Per le donne c’è, inoltre, un aspetto di mortificazione, come hanno raccontato alcune detenute intervenute al convegno con le loro testimonianze: “La donna in carcere non è una donna «normale». Mi spiego: durante la carcerazione ho perso tutte le mansioni, i ruoli che la vita e la stessa società mi richiede. Non posso essere madre, non posso essere figlia, non posso essere compagna o moglie. Lo sono, ma solo nella forma, non nella sostanza. Mi chiedo, quindi, cosa rimane del mio essere donna? Il tempo passa inesorabile e quella società che mi chiedeva di essere «tante cose» ora me lo impedisce, rimandando a data da destinarsi. Mi chiedo, inoltre: è giusto dover rinunciare a tutto questo per scontare la propria pena?”.
“La donna in carcere purtroppo non esiste - prosegue un secondo racconto -. Non ci sono le condizioni per sentirsi una donna veramente. Si elimina ogni esistenza di femminilità, si toglie la possibilità a una madre di sentirsi veramente madre. Noi donne siamo il 4,2% della popolazione carceraria, una percentuale così piccola, da essere insignificante, ma è una percentuale molto sensibile. Anche solo la lista della spesa è predisposta per i bisogni di un uomo e non di una donna. In queste condizioni, semplicemente, cerchiamo il modo di essere belle dentro e belle fuori”.
“La società - riprende il suo racconto Domenica Sacchetti - dimentica questo suo spaccato, e questo vale anche per le donne che lavorano in carcere, che continua a essere un luogo quasi esclusivamente maschile. Per questo è importante il lavoro di sensibilizzazione, nelle scuole, nelle comunità ecclesiali, anche nel cammino di Sinodalità, non possiamo dimenticarci di questa realtà, poiché siamo volto di una Chiesa in uscita, ma anche anello di congiunzione per entrare nelle strutture carcerarie e unire il dentro con il fuori”. Sacchetti ha poi sottolineato come, nella sua esperienza, la capacità femminile di costruire relazioni sia stata fondamentale per mettersi al servizio di tutti, mantenendo uno sguardo globale sulla realtà carceraria. La consacrata ha concluso con il messaggio di una delle relatrici del convegno, la teologa Stella Morra: “In un momento di fatica per la Chiesa e per la società, dobbiamo vedere la possibilità di generare una vita nuova, vedere il cambiamento come opportunità”.
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