Festa del lavoro: "Imitiamo san Giuseppe"
Intervista a Johnny Dotti sul valore del lavoro come l'ha testimoniato Youssef di Nazaret. Il falegname, padre di Gesù e marito di Maria, raccontato nel libro "Giuseppe siamo noi" è una figura capace di accompagnare non solo i padri, ma ciascuno di noi, alla scoperta del significato profondo del lavoro, della cura, della paternità

“Dire oggi che san Giuseppe è un modello per i lavoratori significa affermare che il lavoro non viene per primo, che si lavora per vivere e non si vive per il lavoro”.
Non usa mezze misure, Johnny Dotti, per raccontare l’idea di professione, di lavoro che aveva il padre di Gesù, lo sposo di Maria. Alla figura di Giuseppe lavoratore, nella nuova edizione del libro “Giuseppe siamo noi”, Dotti e il giuseppino padre Mario Aldegani, entrambi bergamaschi, dedicano un intero nuovo capitolo, che non era presente nel testo edito nel 2017.
Un libro fortunato, che ha ottenuto un grosso riscontro, che è stato presentato, solo nei primi due anni, in oltre 160 città e paesi in giro per l’Italia, in biblioteche, oratori, aziende, carceri, all’interno delle associazioni di categoria e sindacali.
Ora una edizione nuova, voluta per “restituire” qualcosa di questi tanti incontri e scambi e per raccontare nuovamente questa figura alla luce della tragedia della pandemia e della lettera del Papa “Patris corde”, dedicata proprio a san Giuseppe.
Un libro che presenta Youssef – così lo chiamano gli autori, con il suo nome ebraico - come una figura capace di accompagnare non solo i padri, ma ciascuno di noi, invitandoci a imitare l’esistenza di un uomo apparentemente comune, ma che seppe incarnare la nobiltà di stirpe insieme a quella di spirito. Un libro, con la prefazione di Chiara Giaccardi e la postfazione di Mauro Magatti, dedicato a papa Francesco, che ha voluto donare alla Chiesa un intero anno nel segno di San Giuseppe.
Abbiamo chiesto a Dotti, sposato, quattro figli, docente, pedagogista e imprenditore sociale, di raccontarci Giuseppe lavoratore, padre e modello di credente.
Che tipo di lavoratore è Giuseppe? Che valore dà al proprio lavoro?
E’ un lavoratore che non perde il senso della vita. Lo si capisce dalle azioni, dalle scelte in cui mette in discussione il proprio lavoro per difendere la moglie-madre e il figlio. Per ben due volte Giuseppe è costretto a lasciare tutto - la bottega, il laboratorio, i clienti -, quando, avvertito in sogno da un angelo, fugge in Egitto per salvare il figlio dalla strage programmata da Erode, e poi quando lascia l’Egitto per tornare a Nazaret, passato il pericolo, sempre dopo un invito dell’angelo in sogno. In terra straniera aveva trovato casa per la sua famiglia, aveva ricominciato il suo lavoro, sicuramente con fatica, avrà avuto un laboratorio, dei clienti, degli ordini da portare a termine. Ma, all’improvviso, è disposto ancora una volta a lasciare tutto, e a ricominciare, per custodire la sua famiglia, il figlio, per farlo crescere. E’ un uomo che si trasfigura in questo viaggio da Nazaret a Nazaret, il luogo della sua quotidianità, delle sue relazioni stabili, della sua responsabilità di padre, di lavoratore, di cittadino. Vive un trauma, sogna e poi agisce: è questa la dinamica della sua vita. E’ capace di integrare il lavoro col senso della vita, e questo risulta evidente da suo figlio, che prende queste caratteristiche dal padre. Giuseppe, in fondo, ci dice che essere marito ed essere padre è un artigianato, un mestiere, molto più importante del nostro mestiere, della nostra professione.
Giuseppe avvia appunto Gesù al lavoro. Quanto sono stati importanti quei 30 anni in famiglia, in bottega, in paese, per il Figlio di Dio? Che cosa ha imparato da suo padre?
Gesù ci ha salvati in quei 30 anni di vita famigliare a Nazaret tanto quanto nei 3 anni di vita pubblica. E le caratteristiche dell’uomo e del padre Giuseppe le scopriamo guardando a Gesù, che prende dal padre, a cominciare dal suo rispetto per le persone, per le donne (da chi l’ha imparato, se non da come Giuseppe trattava Maria?), dal senso che attribuisce a tante cose quotidiane, dalle situazioni che vede con suo papà e che poi userà nelle sue parabole, i riferimenti a tanti lavori o ai rapporti tra le persone. Gesù con il padre frequenta commercianti, artigiani e contadini che vogliono bene al proprio lavoro, non perde il senso della vita e così connette capacità con senso delle cose. Un tempo i maschi e le femmine nella nostra civiltà accompagnavano i padri e le madri nelle attività quotidiane, e imparavano. Soprattutto imparavano a tenere insieme testa, cuore e mani, imparavano la vita: il mestiere di vivere non è solo sopravvivenza, consumo, e appropriazione, ma creatività, applicazione e responsabilità. Il lavoro è una mediazione con la realtà, è importante la consapevolezza che la nostra opera influisce sulla realtà. Come adulti dovremmo imparare dallo stile degli artigiani con il ragazzo di bottega, a perdere tempo con i giovani, per donare loro esperienza, arte, mestiere, sapienza: è la gioia della trasmissione della vita. Oggi noi tendiamo a enfatizzare la funzione, ma certe cose della vita a volte non “funzionano” – pensiamo al matrimonio o al rapporto con i figli - però valgono, perché hanno senso, e quindi hanno bisogno di pazienza e dedizione. Pensiamo a che cosa significa questo non solo per la nostra famiglia, ma nella vita pubblica, o nella Chiesa, quando pensiamo a quanto ci costa una scelta, a quanto “rende” o se è “in perdita”, economicamente o pastoralmente.
Che padre è Giuseppe?
E’ padre e basta, senza aggettivi. Sono i suoi compaesani a dargli questo riconoscimento, quando sentono Gesù insegnare nella sinagoga (“Non è costui il figlio del falegname?”), è un padre che ha vissuto tutti i movimenti della paternità generativa: desiderare, mettere al mondo, far crescere, e poi lasciar andare, quasi scomparendo alla fine, lasciandosi superare dal figlio nella vita. Non vede Gesù “in tivù”, non vede il suo successo, i risultati della sua educazione, non li possiede. Imparare da questo significa lasciare spazio alle nuove generazioni, cosa vitale e urgente in una società gerontocratica come la nostra. Youssef è il modello di ogni padre e di ogni educatore, chiamato a dare la vita al figlio, al giovane che gli è affidato, ma rispettando il suo mistero, la sua vita e la sua libertà, mai da possedere, sempre indisponibili, un padre che sa di essere “ombra” di un altro Padre. Io penso che ci sia molto di Giuseppe dentro il “Padre nostro”. Giuseppe ha educato suo figlio alla contemplazione e alla preghiera, alla compassione e alla prossimità, al rispetto per la donna e la sua dignità, al gusto dell’amicizia e dell’ospitalità, all’arte del lavoro, ma anche del riposo. Una figura che emerge luminosa quella di Giuseppe oggi, in questo tempo di crisi, o di riscoperta, della paternità, perché il segreto di Giuseppe è l’amore.
Che cosa insegna Giuseppe a noi abitanti di questo millennio, che viviamo questo tempo di pandemia in cui ci siamo scoperti smarriti, fragili e vulnerabili?
Ci dice che è possibile tenere insieme trauma, sogno e azione. Il trauma - il dramma che stiamo vivendo – non va rimosso. Anche lui ci prova – pensa di allontanare Maria nel segreto –, ma poi si abbandona al sogno e al progetto di Dio e grazie all’amore accoglie Maria e una possibilità diversa di vita. Ci insegna la cura, il valore del prenderci cura, non solo nel rapporto tra le generazioni, ma anche come modalità di intendere l’economia, la proprietà, la responsabilità, il rapporto con il Creato. Ci insegna a benedire il nostro tempo, l’unico che abbiamo, perché è il tempo migliore possibile, quello che il Padre ha voluto per noi. Ci insegna a recuperare il valore della solitudine, del silenzio, il valore del vuoto che lascia spazio alle domande e alle risposte, il valore della fragilità umana che non è da riparare ma da accogliere, il valore della speranza, dono da custodire e trasmettere al mondo. A quanti di questi aspetti la pandemia ci ha messo di fronte? In questo passaggio noi siamo chiamati a discernere che cosa dobbiamo salvare e che cosa dobbiamo lasciare, come Giuseppe, che nei crocevia essenziali della sua storia ebbe il coraggio di salvare ciò che era più importante, lasciando andare il resto.
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