Rapporto Pendolaria: non è finito il tempo dei "treni lumaca"
Lungo le ferrovie locali aumenta il numero dei passeggeri, ma diminuisce la qualità del servizio. Sconsolante il rapporto con l'Europa, dove neppure il Veneto brilla. Troppo pochi e scarsi gli investimenti per ammodernare le linee.

Ancora treni lumaca in Italia. Il rapporto Pendolaria 2023, di Legambiente, che racconta l’Italia dei viaggiatori pendolari in treno, mostra una situazione poco diversa dal periodo prepandemia. I treni viaggiano lenti, si muovono come un bradipo i lavori per l’ammodernamento delle linee, con poca frequenza i treni quotidiani partono per portare i lavoratori. Sarà difficile, in queste condizioni, riuscire a raggiungere il taglio delle emissioni inquinanti del 55 per cento entro il 2030, come ci siamo impegnati a fare.
Andare al lavoro in treno è ancora una via crucis in Italia per tre milioni di pendolari. Volendo essere ottimisti, ci sono alcuni segni di un timido miglioramento. Merito, prima di tutto dei pendolari, che in numero maggiore credono in questo mezzo di trasporto, visto che, rispetto al 2021, nel 2022 Trenitalia ha dichiarato un aumento del 40 per cento dei passeggeri (sui treni ad alta velocità l’aumento è stato addirittura del 110 per cento). Un piccolo sforzo è stato realizzato anche da Regioni e Trenitalia aumentando il numero dei transregionali, ora sono 2.788 i treni in circolazione nelle regioni italiane contro i 2.666 del 2022. Infine, grazie alle risorse europee, nazionali, regionali e di Trenitalia, attraverso i contratti di servizio, è in corso un rinnovo del parco di treni circolante: nel 2021 l’età media si è attestata a 15,3 anni, in leggero calo rispetto ai 15,6 anni del 2020 (nel 2016 era 18,6 anni).
Ancora sconsolante il rapporto con l’Europa, il confronto è penalizzato dall’insistenza, in Italia, sugli investimenti in asfalto. La Germania ha 2.036 chilometri di ferrovie suburbane, l’Italia solo 740. Le linee metropolitane in Italia si fermano a 254 chilometri, contro i 679 chilometri del Regno Unito, i 614 della Spagna; Madrid o Parigi hanno le stesse rotaie che ha tutto il nostro Paese. Tra il 2010 e il 2020 sono stati realizzati in Italia 310 chilometri di autostrade e migliaia di chilometri di strade nazionali, con solo 91 chilometri di metropolitane e 63 di tranvie. Il Veneto ha dato il suo contributo a questo sostanziale fallimento, realizzando la Superstrada pedemontana veneta e bloccando di converso il progetto Sfmr, la metropolitana di superficie. Una delle ultime prese di posizione dell’ex assessore regionale Renato Chisso della Regione Veneto, poi salito agli onori delle cronache per le vicende di corruzione legate al Mose di Venezia, annunciava l’investimento nella Spv come l’ultima tappa prima di passare in Veneto alla “cura del ferro”. La cura non è mai stata somministrata, al massimo un brodino fatto di qualche raddoppio di linea e un discreto investimento nel materiale rotabile.
Le Regioni investono poco in binari e locomotive, siamo sotto l’1 per cento del bilancio, il Veneto è tra le Regioni che si limita a girare a Rfi, Rete ferroviaria italiana, quanto arriva dallo Stato per realizzare le linee e assicurarne la manutenzione.
Il Veneto è al sesto posto per viaggiatori su rotaia, ma anche da noi la maggior parte degli spostamenti avviene con mezzi propri. Con 162 motrici, il Veneto è al settimo posto in Italia, dietro a Lombardia, Puglia, Toscana, Lazio, Piemonte, Emilia Romagna.
Il Veneto ha ancora molti punti neri. Tra le peggiori linee italiane c’è la Verona-Rovigo, una tratta ferroviaria di 96,6 chilometri, che continua ad essere a binario unico se non per due piccoli tratti. La Rovigo-Chioggia, di 57 chilometri, ha registrato situazioni critiche durante gli ultimi mesi, con il caso clamoroso di inizio dicembre, quando i passeggeri sono stati lasciati a terra a Loreo. Anche in questo caso, si tratta di una linea a binario unico, non elettrificata e che non è inclusa in nessun piano di potenziamento e ammodernamento.
Recentemente queste linee e la Adria-Mestre sono state assegnate a Rfi mettendo fine alla ingloriosa esperienza di Sistemi territoriali.
Resta drammatica, alla vigilia delle Olimpiadi, la situazione della ferrovia del Cadore. L’11 gennaio scorso è stata nuovamente chiusa tra Longarone e Calalzo, per circa un mese, con conseguenze rilevanti anche tra Ponte nelle Alpi e Longarone. Il problema riscontrato da Rfi riguarda, in questo caso, un ponte tra Ospitale e Perarolo, che ha richiesto un intervento straordinario. Oltre alle chiusure, che negli ultimi dieci anni sono state frequenti e prolungate, a preoccupare sono anche i tempi di percorrenza, inevitabilmente dilatati, delle corse di autobus sostitutivi. Per la tratta Calalzo-Ponte nelle Alpi, 36,2 chilometri, siamo ancora allo studio di fattibilità per l’elettrificazione. Praticamente in stato comatoso la tratta Bassano-Trento. Il 5 novembre è iniziato lo stop dei treni per un mese, dovuto all’avvio del cantiere per la sostituzione di nove chilometri di rotaie, per risolvere un problema di usura anomala. Per i pendolari su questa linea, un anno da dimenticare.
All’orizzonte, oltre al completamento della linea alta velocità, ci sono i fondi solo per due tratte da realizzare: la Rubano-Busa e la Stazione di Padova Voltabarozzo, entrambe nel territorio padovano. Procede il piano di elettrificazione che lascia, però, ancora ferme la Belluno-Calalzo, la Vicenza-Schio, e la Adria-Legnago, mentre sta finalmente per concludersi la Treviso-Belluno. Tranne la città di Padova - grazie a Sir 2 e Sir 3 la città disporrà di ben otto linee di tram, identificate da altrettanti colori - per il resto si procede a passo di lumaca.
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