Riforme istituzionali: che sia la volta buona?
Il costituzionalista Stefano Ceccanti, alla vigilia della festa del 2 giugno, non è pessimista sul nuovo tentativo di riforma istituzionale. Difficile, invece una vera autonomia senza il Senato delle Regioni

Lo stato di salute della Repubblica, alla vigilia della festa del la Repubblica 2 giugno e a 75 anni dall’approvazione della nostra Costituzione repubblicana, è buono, addirittura “elevato”, anche se rimane l’esigenza di riforme istituzionali che rafforzino la stabilità di Governo. Quanto all’autonomia differenziata, richiesta a gran voce dal Veneto, essa difficilmente si realizzerà senza una riforma costituzionale che preveda l’esistenza di una Camera delle Regioni, o delle autonomie, al posto dell’attuale Senato. Questa la convinzione del prof. Stefano Ceccanti, già parlamentare, ma intervistato nella sua veste di docente di Diritto costituzionale all’Università La Sapienza di Roma.
Ci apprestiamo a celebrare il 2 giugno, nell’anno dei 75 anni della Costituzione. Qual è lo stato di salute della Costituzione repubblicana?
Se per stato di salute si intende la forza dei principi, tra cui quello dell’apertura sovranazionale dell’articolo 11, che ci impongono di perseguire un’Unione europea più forte in un quadro di solidarietà atlantica, direi che è elevata. Pur nella notevole differenza delle posizioni tra maggioranza e opposizioni, che di per sé non è affatto un male, mi sembra che essi abbiano retto bene alla successione al Governo di pressoché tutte le forze politico-parlamentari nell’arco di pochi anni. Anche l’attuale maggioranza, che aveva posizioni pre-elettorali non positive nel rapporto con l’Unione europea, alla prova dei fatti le ha decisamente mutate.
Il fallimento della riforma Renzi sembrava aver dato un colpo definitivo alle speranze di una riforma organica, per passare a una politica dei piccoli passi. Ci sono nuovamente le condizioni per tentare la via della “Grande riforma”, sulla quale tutti hanno fallito?
Mi sembra che ci si stia confrontando su un obiettivo, per così dire, mediano, tra le riforme chirurgiche della scorsa legislatura e le revisioni dell’intera seconda parte, che non hanno funzionato. Mi pare un approccio ragionevole. Lo stesso dovrebbe valere per i luoghi in cui costruire il consenso. Non sono adatte le commissioni Affari costituzionali, giacché la materia verrebbe incardinata in una sede dove di norma le posizioni di maggioranza e opposizioni sono fisiologicamente alternative, non ci sarebbe riparo dalle divisioni sul lavoro ordinario. Dall’altro lato, occorre evitare strumenti sproporzionati all’obiettivo, come le varie forme di Assemblea costituente. La strategia ragionevole può, quindi, essere quella di partire con una Commissione bicamerale senza poteri particolarmente incisivi, perché la sua forza starebbe non nei poteri, ma nel suo essere luogo riparato di elaborazione.
Entrando nel merito, quale ipotesi ritiene più plausibile tra quelle sul tappeto, in particolare premierato forte, con l’elezione diretta o indicazione vincolante del presidente del Consiglio, e semi-presidenzialismo, con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica?
Credo sia preferibile evitare di partire da modelli astratti, e di adottarne invece uno più pragmatico, ossia di individuare ciò che concretamente va già nella direzione desiderata, che credo tutti auspichiamo, al di là delle diverse soluzioni tecniche, di Governi stabili ed efficienti, rimuovendo gli ostacoli che oggi impediscono ciò. Concretamente si tratta di ripartire dal fatto che, con i risultati delle elezioni politiche dello scorso settembre, si è tornati a Governi con legittimazione popolare diretta, ossia con una continuità che parte dal corpo elettorale, determina una maggioranza parlamentare che poi formalizza in Parlamento il rapporto fiduciario col Governo. Se così è, se questo deve essere il criterio, quello secondo cui “ex facto oritur ius” (il diritto nasce da ciò che accade), non vale quindi la pena di perseguire ipotesi presidenziali o semi-presidenziali, che ci portano distanti dalle dinamiche reali.
Cosa si potrebbe fare, dunque? In cosa consisterebbe il cosiddetto “premierato forte”?
Penso a una qualche formalizzazione della legittimazione diretta dei Governi, che risenta delle particolarità del caso italiano; all’introduzione di disincentivi costituzionali alle crisi, qui invece attingendo alle soluzioni già sperimentate nelle altre forme parlamentari europee. Quindi, alla previsione di un unico rapporto fiduciario (o con una sola Camera o con il Parlamento in seduta comune) del solo Presidente del Consiglio, da instaurare a maggioranza semplice, oltre alla previsione di poter richiedere la revoca dei ministri; la sfiducia costruttiva e lo spostamento parziale, sul Presidente del Consiglio, del potere di scioglimento delle Camere, come deterrente contro le crisi. Potremmo definire questi come i quattro pilastri dello Stato tedesco.
Da quali contrappesi dovrebbero essere seguite queste ipotesi?
Credo ci debba essere una chiara corsia preferenziale per il Governo in Parlamento, che riduca l’anomalia dei decreti. Oltre a questo, il varo di un opportuno Statuto dei gruppi di opposizione e l’innalzamento di alcuni quorum di garanzia nelle istituzioni, nonché l’abbassamento di quello previsto per i referendum abrogativi, in modo da valorizzarli come contropotere.
L’autonomia differenziata sta a cuore soprattutto al Veneto. Essa avverrebbe a Costituzione invariata. Ritiene che il processo in atto abbia elementi di debolezza?
Il nostro è un regionalismo cooperativo privo di una seconda Camera, come sede di cooperazione, che responsabilizzi nazionalmente le autonomie. Senza una sede di questo tipo nessuno si fiderà di nessuno e quindi l’autonomia differenziata si rivelerà impraticabile. La seconda Camera assicurerebbe una regia sul processo, altrimenti si rischia di dare vita a tante relazioni bilaterali, senza un disegno. Il limite della riforma costituzionale del Titolo V del 2001, votata dal centrosinistra, è proprio il fatto che manca un Senato delle autonomie. Già adesso, siamo ingolfati da ricorsi alla Corte Costituzionale nei rapporti tra Stato e Regione, figurarsi con l’autonomia. Se non si rimedia a quella mancanza, il disegno non sta in piedi, accadrebbe che tutti si bloccherebbero a vicenda.
Non sei abilitato all'invio del commento.
Effettua il Login per poter inviare un commento