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Madri dell’Est al lavoro nei nostri campi

Libro inchiesta di Stefania Prandi sul fenomeno
05/09/2024

Dalle provincie della Romania e della Bulgaria, i due Stati più poveri dell’Unione europea, ogni anno migliaia di donne, molto spesso madri, migrano per lavorare nei campi italiani. Quali sono le loro in condizioni di lavoro? Abbiamo intervistato Stefania Prandi, autrice di “Madri lontane” (People, 2024). Il testo ricostruisce il viaggio di queste donne, divise tra il lavoro in Italia e la famiglia a migliaia di chilometri di distanza. Il reportage di Prandi accende una luce sulle storie dolorose di queste donne.

Come si entra in relazione e in empatia con le donne che ha intervistato, donne che hanno vissuti difficili e dolorosi?

Prima di andare in Romania e Bulgaria, nei luoghi d’origine di queste donne, è stata necessaria un’accurata fase preparatoria. Ho dovuto studiare e organizzarmi per trovare delle mediatrici che mi aiutassero a entrare in contatto con le persone da intervistare. Ho trovato in Bulgaria una giornalista e una ex bracciante che facevano parte di una comunità vicino alla città di Montana che mi hanno aiutata, spiegando il mio lavoro. A questo punto, dovevo cercare di trovare un punto di connessione con queste donne. Ho spiegato nel dettaglio il mio progetto, che avrebbe portato alla realizzazione di un libro e di una mostra fotografica. Era importante che trovassimo un modo perché potessero fidarsi di me, affidandomi la propria storia per trasformarla in qualcosa di pubblico, che avrebbero visto e letto anche altri. Chiaramente per rapportarsi con le persone serve una buona dose di empatia ed è importante cogliere i segnali di quanto si può andare in profondità con le domande.

La sua inchiesta testimonia come in Italia alcuni principi fondamentali della Costituzione, come l’art.35 e l’art.37 siano sistematicamente calpestati. La nostra opinione pubblica ha normalizzato questo dato di fatto?

Il tremendo caso di Satnam Singh delle scorse settimane ha messo sotto gli occhi di tutti una realtà: in Italia ci sono delle persone che sono considerate meno umane delle altre, nonostante gli articoli della Costituzione dovrebbero imporci di seguire un certo atteggiamento e criteri su come noi e le aziende ci rapportiamo agli altri. Tra queste persone deumanizzate, ci sono i migranti. Per capire di più cos’è la de-umanizzazione, consiglio di leggere “Deumanizzazione. Come si legittima la violenza” di Chiara Volpato (Laterza, 2011) Ciò accade con le badanti, le donne che lavorano nei campi e tutti coloro fuori da determinate classi sociali. Sono fattori non solo dovuti al razzismo, ma anche a ricchezza e status sociale. La deumanizzazione avviene anche tra italiani, ad esempio tra chi fa i lavori più umili.

Deumanizzazione che passa anche attraverso una diversa considerazione per la maternità...

Se una giovane madre deve migrare, come racconto, quando i bambini sono molto piccoli, non può allattare al seno. Questo è un esempio di quanto le maternità non occidentali non siano tenute in considerazioni come quelle occidentali. In Italia, la maternità viene esacerbata da una serie di dettami e stereotipi che sembrano necessari per essere una buona madre. All’opposto, queste norme non solo non vengono prese in considerazione per le madri migranti, ma non vengono proprio concepite: non c’è alcun tipo di rispetto per le possibilità che potrebbero avere. Non solo noi occidentali non ci curiamo delle loro maternità, ma nemmeno gli Stati di origine, come ad esempio quello rumeno, tutelano madri e bambini in questo senso. Non c’è un’età giusta per andarsene. Quando diventano adolescenti, i ragazzi hanno bisogno degli adulti per altre ragioni tanto quanto i bambini.

Miruna ha 27 anni ed è incinta del secondo figlio. “Sono andata via due volte, per tre mesi, quando il mio primo figlio aveva solo due anni. C’era una donna che passava di casa in casa e reclutava le braccianti. E faceva la cresta sui nostri stipendi”

Lo sfruttamento dei braccianti è una vergogna dell’agricoltura in Italia. Sta prevalendo l’idea che questo sia inevitabile e anzi, conveniente?

Dopo la morte di Satnam Singh c’è stata una mobilitazione di sindacati e associazioni. Ci sono stati controlli massicci il 24 luglio, per i quali è stata applicata legge 199/2026 contro il caporalato. Credo, tuttavia, che queste siano operazioni cosmetiche, perché in realtà non si vuole intervenire nella situazione nello specifico: avere manodopera a basso costo ricattabile e disponibile a lavorare quando si vuole fa comodo. Va anche detto che l’agricoltura ha delle sue peculiarità: essa prevede fasi di raccolta intense in pochi giorni. Si tratta di lavoro precario e che si presta a forme di caporalato. Bisogna intervenire sulle forme di sfruttamento, istituendo uffici di collocamento per far sì che le persone possano lavorare in agricoltura in modo legale e senza che i loro diritti siano calpestati. E’ chiaro anche che non tutte le aziende sono sfruttatrici. Dobbiamo distinguere. Però c’è un sistema di fondo che ci riguarda tutti.

Dalle interviste che ha condotto emerge un’Italia razzista che sfrutta queste donne proprio perché in una posizione subalterna di genere, economica, sociale. Eppure il contributo di queste lavoratrici all’economia italiana è sempre più importante, soprattutto in un Paese come il nostro, sempre più vecchio...

Secondo i dati 2022 dell’osservatorio Placido Rizzotto, 230.000 persone in Italia che lavorano in agricoltura sono vittime di sfruttamento serio. Altre 180.000 vivono in estrema povertà. E’ un fenomeno che si potrebbe arginare, ma non c’è volontà di farlo. La parte della rete di aziende di qualità non è stata incentivata ed è difficile pensare a una soluzione. Non credo che l’unica risposta sia il razzismo, talvolta è l’opportunismo di sfruttare i precari in varie situazioni con caratteristiche sociali diverse. Più sei vulnerabile più sei passibile di sfruttamento. Questa situazione è risultato di indebolimento del sindacato con una serie di leggi, che nel corso dei decenni hanno leso i diritti sociali. Il travaso di manodopera non avviene solo nella Comunità europea, ma anche per esempio da Sudamerica e dai Paesi asiatici, come ad esempio le Filippine. E’ proprio uno sfruttamento di persone con meno possibilità che sono disposte a tutto. Ultimamente sono stati propagandati discorsi che sostengono che le migrazioni economiche non hanno la stessa dignità di altri tipi di migrazioni. Trovo ciò inquietante: si deve avere diritto di cercare migliori condizioni di vita per sé e i propri figli o semplicemente per mangiare, come raccontano le donne che ho intervistato.

Romania, Bulgaria, Spagna e Italia. La sua inchiesta si sviluppa all’interno dei confini di quell’Unione europea, che dovrebbe garantire dignitosi standard di vita e di lavoro ai suoi cittadini. Si è mai affrontato questo fenomeno a livello comunitario?

Ci sono delle disparità di guadagno così forti che chiaramente si hanno attitudini diverse. Lo vediamo anche in Italia con la fuga dei cervelli, un’altra diaspora considerata più “dignitosa”. Alla fine questo viaggio in alcuni casi è premiante, in altri è svalutativo. Sono discorsi usati politicamente a livello demagogico: la manodopera a basso costo serve. Sono da poco tornata dal foggiano, dove la raccolta dei pomodori impegna persone subsahariane in un lavoro durissimo, usurante, che lascia una serie di segni sul corpo e purtroppo anche malattie per contatto con fitofarmaci. Un lavoro che gli italiani non vogliono più fare.

Indagini, anche recenti, evidenziano che lo sfruttamento dei lavoratori agricoli è sistematico anche in Veneto. Quali sarebbero secondo lei le azioni da intraprendere per contrastarli con efficacia?

Avere più ispettori, mappare i terreni in relazione alla gente che lavora iscritta all’inps, capire contratti in regola e non in regola, incrociare i dati, fare controlli nei campi, punire le aziende in cui si verificano situazioni di caporalato. Tuttavia ci sono pochi ispettori e i controlli spesso vengono annunciati. E’ un dato di fatto che mi viene raccontato. La verità è che non c’è voglia di contrastare il fenomeno.

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