La morte ha la forza di farci riconsiderare le priorità della vita e, forse, di dare loro un po’ di ordine....
Oggi il coronavirus, cento anni fa la terribile "spagnola". E un libro documenta: "Vennero sospese le esequie"
L’emergenza di questi giorni per la diffusione del coronavirus e la sospensione della celebrazione pubblica delle messe ci porta alle vicende di 100 anni fa, quando proprio nel Trevigiano, nei momenti culminanti della Prima guerra mondiale, da un giorno all’altro comparve la febbre spagnola e in pochissimo tempo la situazione diventò drammaticae informazioni su quanto avveniva nell’ultimo anno della Grande guerra sono raccolte nel volume “La sanità militare nelle retrovie del fronte dopo Caporetto, strutture sanitarie e storie di persone nei comuni di Silea, Casier e Casale sul Sile”, curata da Paolo Criveller che con i suoi studenti del Liceo da Vinci aveva svolto la ricerca.
L’emergenza di questi giorni per la diffusione del coronavirus e la sospensione della celebrazione pubblica delle messe ci porta alle vicende di 100 anni fa, quando proprio nel Trevigiano, nei momenti culminanti della Prima guerra mondiale, da un giorno all’altro comparve la febbre spagnola e in pochissimo tempo la situazione diventò drammatica. Le informazioni su quanto avveniva nell’ultimo anno della Grande guerra sono raccolte nel volume “La sanità militare nelle retrovie del fronte dopo Caporetto, strutture sanitarie e storie di persone nei comuni di Silea, Casier e Casale sul Sile”, edito da Istresco nel maggio dello scorso anno e già recensito dalla Vita del Popolo. Il prof. Paolo Criveller che con i suoi studenti del Liceo da Vinci aveva svolto la ricerca, non pensava certamente che quelle vicende potessero tornare d’attualità dopo pochi mesi.
Racconta Criveller: “Da un giorno all’altro cambia completamente la situazione: negli ospedali militari non si muore più per le ferite, ma per l’influenza spagnola. E’ uno stillicidio quotidiano. Le autorità prendono misure drastiche, compresa la sospensione dei riti in chiesa per le esequie funebri e l’accompagnamento delle salme in cimitero con il concorso di popolo. Il rito si limita alla preghiera e alla benedizione del defunto in cimitero, con poche persone”.
Come si vede, dunque, non è una novità l’introduzione di restrizioni per i riti religiosi durante gravi epidemie. Certo, prosegue Criveller, “non ci sono altre informazioni su cosa potesse accadere per le messe ordinarie, nei registri delle messe che è stato possibile consultare risultano registrate le celebrazioni da parte dei preti della parrocchia e dei cappellani militari, ma si deve ricordare che ogni sacerdote celebrava la sua messa, con o senza partecipazione di popolo. E’ da ritenere che vi fosse prudenza nell’evitare assembramenti anche nelle celebrazioni ordinarie, ma non vi sono specifiche informazioni”.
Anche allora, si parlò di un ritardo nella segnalazione della pericolosità del virus, che proveniva dagli Stati Uniti. Il nome dell’epidemia derivava dal fatto che nel Paese iberico, che non era in guerra, erano state fatte indagini attente ed era stata individuata la causa dell’influenza.
Quando l’epidemia si manifesta nel Trevigiano era già in circolazione da mesi, ma non erano state prese misure di contenimento. “Il pericolo - spiega il docente - veniva occultato dalle autorità militari per non allarmare i soldati e la popolazione civile”. Ancora fino alla metà di settembre 1918, dalle nostre parti, non si parla dell’influenza spagnola e non ci sono vittime. Dal 24 settembre scoppia il dramma. Nella documentazione raccolta per la ricerca si è visto che la prima volta che compare la denominazione “febbre spagnola” è il 1° ottobre 1918. Scrive infatti il cappellano dell’ospedale 162, ubicato in villa Toso, a Casier: “La influenza o febbre spagnola comincia a comparire anche da noi. L’ospedaletto deve riservare un reparto di 60 posti. Da ieri a oggi è già tutto pieno. Oggi tre morti”.
A Conscio il primo decesso risale al 24 settembre, a Dosson il 25 settembre, a Casale e a Lughignano il 26 settembre. Alla fine, le vittime furono oltre 200 negli ospedali militari presenti in quel periodo nei tre comuni al centro della ricerca.