sabato, 27 luglio 2024
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Salute mentale: quarantacinque anni fa entrava in vigore la legge Basaglia

Il prof. Giuseppe Dell’Acqua, uno dei collaboratori di Basaglia e già direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, parla di che cosa rimane ancora da fare

La malattia mentale non si è mai scrollata di dosso l’uniforme di vergogna e stigma che ci riporta in quei luoghi dove la persona veniva chiusa e isolata, per essere nascosta “ai normali”: i manicomi. Una divisa che rappresentava uno scandalo sociale e classificava chi la indossava come “matto”.

Chi erano gli utenti? Nei manicomi si veniva rinchiusi perché ritenuti pericolosi per sé o per gli altri, perché si dava pubblico scandalo, perché improduttivi, poveri, affetti da dipendenze, perché malati di epilessia. Donne definite “spudorate”, “libertine”, che si ribellavano ai dettami del matrimonio o che commettevano adulterio, potevano essere internate.

Come, dove e perché? In Italia la maggior parte dei manicomi venne costruita ai margini delle città, in periferia. In questi istituti i contatti con l’esterno erano ridotti all’osso, si veniva relegati all’isolamento, alla coercizione e alla contenzione fisica. Un annullamento fisico e psichico che culminava nelle cure e nei trattamenti: elettroshock, docce gelate, camicie di forza, lobotomie, insulino-terapia e letti di contenzione.

Il nostro territorio. A Treviso, ai primi del secolo scorso, fu approvato il progetto e realizzato il manicomio Sant’Artemio, in quella che allora era aperta campagna, dove convogliare chi per disagio psichico o per diversità socio-comportamentale era marginalizzato. In settant’anni il Sant’Artemio ha accolto 45 mila persone.

A questo negli anni furono collegate, in provincia, altre cinque case di salute che avevano sede a Oderzo, Montebelluna, Crespano del Grappa, Valdobbiadene e Vittorio Veneto.

Questione aperta. Nonostante i grandi e legittimi passi in avanti, quella attorno alla salute mentale non si può dire sia una questione risolta: parlarne al passato significherebbe rimuovere gli ostacoli moderni, le difficoltà contemporanee, le contraddizioni – e concezioni – che ancora oggi resistono alle leggi e alla cultura. Nell’approfondire l’argomento va ricordato che la concezione di “malato” e non la “malattia” fu il punto di rottura con le pratiche e le culture istituzionali, trovando evidenza con la L. 180/1978 conosciuta anche come legge Basaglia.

Una scommessa vinta. Il vento di rinnovamento e di critica alle istituzioni che spirava agli inizi degli anni ’70 dalla Venezia Giulia - dove il prof. Franco Basaglia con la sua equipe operò sul versante dell’umanizzazione delle cure psichiatriche e della critica all’istituzione totale del manicomio -, in contemporanea a movimenti culturali sorti in Francia e Inghilterra, raggiunse ben presto anche Treviso. Nonostante la legge n. 180, il superamento del manicomio Sant’Artemio arriva solo nel 2003, in quanto fino ad allora continuò a funzionare come struttura di accoglienza di quei malati cronici che venivano (e sono) denominati ‘residui psichiatrici’.

Fotogrammi. In molti se li ricordano bene quei “matti” al Sant’Artemio, sdraiati sulle panchine con uguale divisa o passeggiare nei vialetti interni. Dall’altra parte della rete c’era la casetta che ha ospitato prima gli obiettori di coscienza e poi le avs della Caritas. Da lì si potevano notare bene.

Per cercare di capire cosa è cambiato dall’introduzione della legge n. 180, abbiamo posto alcune domande al professor Giuseppe Dell’Acqua, uno dei collaboratori di Basaglia e già direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste.

Prof. Dell’Acqua, 45 anni fa (era il 13 maggio 1978, ndr) entrava in vigore la legge Basaglia che sanciva la chiusura dei manicomi e riformava il sistema di cura per il disagio mentale. Fu un passo importante per un nuovo approccio alla salute mentale?

Il lavoro di Basaglia e la legge hanno portato certamente alla chiusura dei manicomi come conseguenza di un passaggio/rottura forse ancora più radicale: l’accesso ai diritti costituzionali dei “malati di mente”, fino a quel momento impediti a qualsiasi tipo di cittadinanza. Cittadini di serie B. Da qui la possibilità di cura e di reale restituzione, nella possibilità di stare nelle relazioni.

Se da un lato segnò una svolta nel mondo dell’assistenza ai pazienti psichiatrici, dall’altro oggi sembrano persistere carenze di luoghi di cura per persone affette da disagio psichico...

La scommessa che il nostro Paese ha voluto fare con la legge del 1978, diritto alla cura a tutti, a ognuno nella sua singolarità, a ogni tipo di fragilità, apre a una storia senza fine. Quella riforma, a pensarci bene, costituisce la riforma di maggior successo del nostro dopoguerra: cittadini fragili, matti, strani, da invisibili e senza ascolto alcuno, hanno cominciato a contare, a interrogare con voce ferma le istituzioni, noi tutti. E’ cambiato radicalmente il nostro modo di vedere e incontrare l’altro. E se molto è stato fatto, le politiche regionali, le organizzazioni delle aziende sanitarie, dei servizi sociali, della formazione nelle scuole e nelle università, hanno prodotto rallentamenti e “disastri” che tutti ben conoscono.

Nei manicomi si veniva rinchiusi perché ritenuti pericolosi per sé o per gli altri, perché si dava pubblico scandalo, perché improduttivi, poveri, affetti da dipendenze. Quali passi in avanti sono stati fatti in questi decenni e cosa rimane da fare?

Intanto non è più così. Le persone con disturbo mentale possono esprimere bisogno di cura e non avere consapevolezza di dovervi accedere. Quella legge non fa altro che questo: affermare che lo Stato e i servizi devono garantire a ogni cittadino il diritto alla cura nel rispetto della libertà, della dignità e della soggettività. Il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) è un punto molto avanzato di equilibrio tra “l’obbligo alla cura” e l’adesione alla cura. La pericolosità non può più essere considerata come obbligo alla cura.

L’approccio rivoluzionario di Basaglia ha trovato applicazione nelle logiche penitenziarie solo nel 2014 con la legge n. 81, segnando però solo lo scorso anno la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Un altro passo avanti per restituire alle persone, ancorché recluse, le vesti di esseri umani?

Gli Opg cominciano a chiudersi già nel 2015. Non è poca cosa. Pericolosità, infermità di mente e istituzioni rappresentano il nodo più difficile da sciogliere. E’ stata una sorpresa per me vedere che in poco tempo, poco più di un anno, gli Opg si sono svuotati, hanno cominciato a funzionare le Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza (Rems). I processi di cambiamento, ancorché avviati, fanno fatica a radicarsi. Più che aumentare il numero delle Rems, dei posti letto dovrà prendere corpo la cultura e la pratica del progetto terapeutico e riabilitativo individuale.

Venendo ai recenti fatti di cronaca in cui operatori vengono feriti, anche in modo mortale, da parte di persone affette da disagio psichico, si è riacceso come un’onda il dibattito sociale sulla pericolosità, incurabilità e asocialità di queste persone. Qual è il suo pensiero a riguardo?

Ricordare quanto è accaduto a Pisa (psichiatra uccisa da un ex paziente, ndr) non può che riaccendere il dolore che ognuno di noi ha vissuto. L’onda, come lei la chiama, in questi miei cinquant’anni di mestiere più volte si è riattivata e ogni volta è stato necessario ribadire che la pericolosità di cui si parla ha davvero poco a che vedere con il disagio psichico in quanto tale. Gli operatori della salute mentale vivono condizioni molto spesso al limite della sopportabilità, che non hanno nulla a che vedere con i comportamenti “dei malati di mente”. Molto accade per la miseria delle risorse, la sciatteria delle organizzazioni, le culture delle psichiatrie che li rendono oggetto al solo sguardo.

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