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In balia degli estremisti

Lucida analisi, a Bilanci di pace, di Renzo Guolo, docente di Sociologia della religione, sul conflitto tra israeliani e palestinesi, per il quale, al momento, non vede spiragli possibili di tregua
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Sala gremita, attenta, in religioso silenzio per ascoltare la precisa analisi storica sui rapporti conflittuali tra israeliani e palestinesi e sulle prospettive dell’ultimo conflitto, scoppiato il 7 ottobre scorso. Il tema della seconda serata di Bilanci di pace, promossa da Caritas tarvisina, Pastorale sociale e del Lavoro, Centro missionario, Migrantes e il settimanale diocesano La Vita del Popolo come media partner, ha visto, giovedì 25 gennaio nella sala Longhin del Seminario di Treviso, il professor Renzo Guolo, docente di Sociologia della religione all’Università di Padova, cercare di dipanare questioni intricate da comprendere, se non si conosce il passato. Introdotto da don Bruno Baratto, e sollecitato dalle domande del giornalista Elia Cavarzan e dal video inviato dal patriarca di Gerusalemme dei Latini, Pierbattista Pizzaballa, Guolo ha evidenziato quanto sia difficile giungere a capo di questo conflitto. “Siamo di fronte a un conflitto che nella sua forma storica dura dal 1948, da quando la bipartizione fu rifiutata dai Paesi arabi”. E poi il conflitto del 1956, fino alla guerra dei sei giorni del 1966, e, in seguito, con l’ulteriore esodo della popolazione araba palestinese, “Naksa”, dai territori occupati da Israele. “Non è possibile fare tabula rasa di questi elementi”. Di certo non l’hanno fatta i molti presenti con i capelli bianchi. Quelli che sicuramente ricordano quando l’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, si batteva per la nascita dello Stato palestinese, mentre, dall’altra parte Israele occupava militarmente territori, “allora non colonizzati”.

Era, anche, una “guerra appendice del bipolarismo Stati Uniti Unione sovietica”, come tutti i conflitti del tempo.

Qualcosa di nuovo accade nel 1968 quando Moshe Levinger e un gruppo di coloni religiosi si stabiliscono a Hebron. Predicano che “solo quando l’intera Israele biblica, i confini della quale non si conoscono” sarà posseduta, “allora la redenzione potrà avvenire”. Un piccolo gruppo che comincia ad avere proseliti, a trovare appoggio nel Partito nazional religioso, a colonizzare i territori, prima in avamposti, con caravan, roulotte, e poi con case. “Era un movimento minoritario, ma nel 1977 questo schieramento alleato con Likud, partito conservatore di destra, entra al Governo e diventa decisivo per il mantenimento di questo assetto politico”. Due forze che marciano insieme fino a oggi. E con la presenza dei coloni che rende sempre più difficile negoziare.

Dall’altra parte, il problema è Hamas. “A partire dalla fine degli anni Ottanta, quando il quadro internazionale muta, l’Olp sceglie di negoziare e di riconoscere lo Stato di Israele. Ma deve fare i conti con il proprio schieramento interno, e con l’estremismo religioso: quello che nasce nel 1987 a Gaza, ovvero Hamas, è un partito islamista, declinazione del fondamentalismo religioso”. Hamas erode potere all’Olp soprattutto a Gaza, “è un’affiliazione dei fratelli musulmani egiziani, la branchia palestinese della fratellanza. Hamas vince le prime elezioni libere a Gaza: non è solo un gruppo militarista, è politico, religioso, fa azioni caritatevoli”. Tanti altri episodi fondamentali sono stati ricordati, come l’uccisione di Rabin da parte dell’estremista Amir, che si opponeva agli accordi di Oslo. Il processo di pace si ferma. Dall’una e dall’altra parte prevalgono sempre le due forze estremiste. “Non parliamo di pace, ma non si riesce a trovare nemmeno la possibilità di intesa minimale” dice il professor Guolo. Come si giunge al 7 ottobre, all’attacco di Hamas a Israele con 1.400 morti e un numero imprecisato di ostaggi? “E’ il classico attentato strategico, per modificare l’assetto”, che si stava creando con gli Accordi di Abramo, la piattaforma diplomatica che nel 2020, sotto l’Amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, aveva già portato alla firma di un’intesa tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. “Hamas sperava in una reazione come quella del 2006, due giorni di bombardamenti, un migliaio di morti...”. Ma questa volta no, “Israele pensa sia giunto il momento di dare una lezione a Hamas, di fare tabula rasa di Gaza”. Una guerra che rischia di espandersi, anche se nessuno lo vuole, in conflitti che sono di “carattere ideologico-religioso, due istanze difficilmente riducibili”. Ecco allora gli Houthi, gruppo armato dello Yemen, sostenuto dall’Iran, nel Mar Rosso, gli Hezbollah a Nord, gli Stati Uniti contro l’Iran. E tutto questo anche se “nessuno dei Paesi arabi è interessato oggi a far la guerra a Israele”, “conflitti senza farli deflagare in qualcosa che potrebbe diventare più della famosa guerra mondiale a pezzi di cui parla anche papa Francesco” aggiunge Guolo, che non vede spiragli pacifici a breve: “Andremo avanti per mesi non soltanto per la complessità della situazione, ma Netanyahu vuole giungere a novembre, alle elezioni negli Stati Uniti, sperando che Trump diventi presidente”. Un azzardo, ma unica possibilità di restare leader. Il presidente Biden preme per la soluzione dei due Stati. Anche i singoli Stati europei sono per questa soluzione, “altrimenti la situazione conflittuale si riproporrà fra 6 mesi o un anno”.

Anche Hamas, ha sottolineato il relatore, si gioca tutto con questa operazione, “gioca su prospettiva di lunghissimo periodo”, morendo oggi come martiri, elemento importante della loro fede, ma con la speranza di prendere potere in Cisgiordania. “Opposti estremismi in campo giocano su queste versioni”, conclude Guolo.

Dalle parole del patriarca Pizzaballa, l’unico, minimo, sollievo: “La piccola comunità di cristiani a Gaza, che ha deciso di restare nonostante la richiesta di evacuazione, in questo diluvio è l’arca di Noè, che prega e rende visibile la presenza di Gesù in questo mare di dolore, che non affonda, ma attende l’arrivo della colomba che porti il ramoscello di ulivo”. Non è il momento di fare progetti per il futuro. E’ il momento di fermare le operazioni militari. “E’ di grande consolazione sapere che c’è gente che prega per noi, si fa voce del dolore e del desiderio di pace, piccola goccia importantissima”.

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