Sentiamo anche il dovere di segnalare la difficile e a volte critica situazione in cui versa oggi nel...
Editoriale: La pace che non c’è
Il Governo Netanyahu
In questo, il Governo di Benjamin Netanyahu, tenuto sotto scacco dalla destra estrema, che gli garantisce la maggioranza in parlamento (la Knesset), ci mette del suo e sembra che non voglia rendersi conto che, con l’invasione della Striscia di Gaza e con l’ininterrotta politica “espansionistica” in Cisgiordania, sta risvegliando in tutto il mondo un pericoloso antisemitismo.
Al processo di pace non aiutano certo le continue provocazioni messe in atto dal Governo israeliano come, ad esempio, il rifiuto alle organizzazioni internazionali di portare aiuti umanitari, indispensabili per la sopravvivenza dei palestinesi asserragliati nella Striscia. Prova ne sia la recente chiusura del valico di Rafah, sul confine egiziano, dal quale devono necessariamente passare i convogli umanitari. Né tanto meno la sconsiderata politica di progressiva occupazione della Cisgiordania da parte dei coloni, appoggiati dall’esercito. In proposito, è dei giorni scorsi l’avvio alla Knesset dell’iter legislativo per l’annessione, prontamente bloccato da Donald Trump, il quale si rende ben conto che questa ulteriore provocazione scatenerebbe la reazione delle Monarchie arabe del Golfo sue alleate indispensabili per controllare dal punto di vista economico e strategico l’area mediorientale.
Il problema di Hamas
Purtroppo, anche l’organizzazione Hamas ci mette del suo nell’ostacolare il processo di pace. Sappiamo che una delle condizioni poste da Netanyahu per un accordo fosse quella del disarmo totale di Hamas e dell’esilio dei suoi capi. Sarebbe questo, forse, l’unico modo per ripristinare la piena autorità dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), legittima rappresentante del popolo palestinese e dell’Autorità palestinese (il Governo transitorio). Non riusciamo, pertanto, a capire come mai Trump, invece di avviare tale disarmo, abbia deciso che Hamas svolgesse a Gaza funzione di polizia e di ordine pubblico. Tanto che ora, uscito dai cunicoli sotterranei, Hamas imperversa ovunque facendo piazza pulita delle milizie concorrenti o avversarie e perpetrando, alla luce del sole, pubbliche esecuzioni.
Una tregua imposta
Se gli Stati uniti lo avessero voluto, la tregua in atto si sarebbe potuta raggiungere molto prima e si sarebbero, così, potute evitare decine di migliaia di morti tra la popolazione civile e l’immane sofferenza dei palestinesi della Striscia. Probabilmente, a convincere Trump che ormai era necessaria una tregua è stata l’incalzante attività bellica di Netanyahu il quale, dopo aver bombardato alcuni Paesi mediorientali (Iran, Yemen, Siria, Libano) colpevoli di ospitare gruppi terroristici, ha colpito pure la parrocchia cattolica di Gaza, provocando la reazione dei patriarchi latino e ortodosso di Gerusalemme e della Santa Sede. Purtroppo, ha avuto anche la sciagurata idea di lanciare missili e droni su Doha, capitale del Qatar, suscitando, così, la pronta reazione delle Monarchie del Golfo e, evidentemente, degli Stati Uniti, che si sono sentiti toccati negli interessi economici, politici e strategici che hanno nella regione. Può darsi che un po’ siano servite anche le manifestazioni “pro Pal” diffuse in tutto il mondo e il valore simbolico assunto dalla “Flottiglia” di imbarcazioni umanitarie di oltre 40 Paesi partita in settembre alla volta di Gaza.
E così, mentre Trump ha imposto a Netanyahu di accettare la tregua, minacciandogli la sospensione delle forniture militari, i ricchi Governi arabi (e la Turchia) hanno costretto Hamas a cedere, pena il blocco dei cospicui e ininterrotti finanziamenti che a essa elargivano.
Sembra che ci sia voluto davvero poco! Purtroppo, la storia ci insegna che alla fine solo chi dispone di un grande potere economico e militare può indurre chiunque, anche il più sconsiderato riottoso, a cedere a più miti consigli.
Il ruolo di Cina e Stati Uniti
La tragedia di Gaza ha fatto passare in secondo piano, anche nei media, la tragica situazione in cui versa l’Ucraina, bombardata con sempre maggiore intensità da Vladimir Putin. Trump, che con una certa spavalderia e ingenuità politica, aveva promesso di ottenere la pace in pochi giorni e, nell’incontro avvenuto ad agosto in Alaska, aveva concesso all’autocrate russo credito e onori, ora si ritrova con le pive nel sacco e si sente preso in giro dall’astuta volpe del Cremlino. In questa guerra, l’Europa ci sta rimettendo economicamente più di tutti e, al di là del sostegno al sempre più stanco e provato Volodymyr Zelens’kyj si trova, oltre che marginale, anche divisa e tagliata fuori dai giochi e in balia delle bizze di Trump.
Riteniamo, però, che anche in questo caso, possa avere più possibilità di promuovere un processo di pace solo chi è attualmente più avvantaggiato rispetto la Russia, ossia gli Stati Uniti, a motivo della loro ricchezza e potenza militare (anche se sul piano nucleare tra i due c’è un sostanziale equilibrio), e la Cina, per l’impegno che ci mette nel sostenere Putin e la sua traballante economia di guerra.
Non ci resta, pertanto, che sperare nei frutti dell’incontro svoltosi giovedì, in Corea del Sud, tra il presidente americano Trump e il leader cinese Xi Jinping. Chissà che, tra un accordo commerciale e l’altro, non riescano anche a trovare un’intesa sulla guerra tra Russia e Ucraina.



