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Una semplificazione tanto desiderata e poco cercata

In questi mesi abbiamo desiderato quasi esclusivamente di poter riaprire le chiese e celebrare l’eucaristia, confidando che per l’annuncio del Vangelo potessero in qualche modo sopperire i nostri messaggi e le trasmissioni televisive o in streaming. Abbiamo desiderato proprio l’essenziale, non preoccupandoci certo di progetti pastorali o di investire pastoralmente sul futuro. Una sosta forzata che, forse, dovevamo assumere come sosta pensosa.

21/05/2020

La pandemia ha praticamente azzerato la vita pastorale delle nostre parrocchie. Di punto in bianco, ad eccezione dei funerali in cimitero, non abbiamo potuto garantire nemmeno le cose essenziali come la celebrazione eucaristica e gli altri sacramenti. Sono saltate anche le relazioni dirette tra persone. Molti hanno sentito i divieti imposti dallo Stato alle attività religiose come un’invasione di campo, senza chiedersi se il farci carico della salute e della vita degli altri non sia uno dei grandi doveri di noi cristiani.

Bisogna dire che papa Francesco e i nostri vescovi hanno cercato di motivare le scelte fatte dal Governo e ci hanno sostenuto in diversi modi nel difficile cammino di questi mesi. Un fattore esterno, imprevisto e devastante, è bastato per semplificare o azzerare anche quella pastorale ormai super obesa, sulla quale da anni andiamo riflettendo e invocando, non senza provare un senso di impotenza, semplificazione, ritorno alle cose essenziali, meno dispendio di tempi, energie e risorse. Una pastorale fatta di progetti e iniziative che procedevano sempre per sommatoria e mai per sottrazione o ridimensionamento di altre cose.

E’ chiaro che non si tratta di cattiva volontà: la pastorale o mediazione salvifica non è fatta solo di puro annuncio del Vangelo e celebrazione dei sacramenti, ma anche di mediazioni, attività formative, scuole materne, incontri e tante altre cose che consentono di creare quel tessuto umano e quelle condizioni necessarie per una efficace “plantatio evangelica”; per favorire anche le buone relazioni, la fraternità tra gli uomini, il bene comune. E questo perché la trasmissione del Vangelo e l’educazione della fede non riguardano gli angeli ma le persone, la cultura in cui vivono e dalla quale sono condizionate, le loro situazioni sociali, psicologiche, familiari e professionali. Tanto che ancora negli anni ’70 la Chiesa italiana, prendendo atto di questa nuova emergenza, aveva pensato bene di avviare un piano pastorale decennale su evangelizzazione e promozione umana.

 

L’essenziale, nonostante tutto

In questi mesi abbiamo desiderato quasi esclusivamente di poter riaprire le chiese e celebrare l’eucaristia, confidando che per l’annuncio del Vangelo potessero in qualche modo sopperire i nostri messaggi e le trasmissioni televisive o in streaming. Abbiamo desiderato proprio l’essenziale, non preoccupandoci certo di progetti pastorali o di investire pastoralmente sul futuro. Una sosta forzata che, forse, dovevamo assumere come sosta pensosa. Infatti, tolti coloro che hanno fantasticato e profetizzato su ciò che, passata la crisi, sarebbe radicalmente cambiato nella società, nei costumi e nella Chiesa stessa, per molti altri, invece, c’è stata la prevalente preoccupazione di come vivere con profitto spirituale questo tempo di privazioni che ci ha resi, credenti e non credenti, tutti uguali e sulla stessa barca, accomunati dalle stesse paure e dalla stessa preoccupazione per il futuro. Tanto che, proprio nell’isolamento, ci siamo sentiti più solidali e uniti con gli altri. Forse, mai come in questo tempo, abbiamo percepito quanto vere siano le parole del Concilio: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et Spes 1).

Per noi pastori, questo bagno di umiltà e di salutare impotenza, dovrebbe indurci a riflettere e a non aver fretta di ripartire come prima e anzi, pur di recuperare il tempo e le possibilità perdute, più di prima. La fame causata da forzato digiuno o da diete troppo rigide, invece di aiutarci a trovare un nuovo equilibrio psicofisico, può anche farci il brutto scherzo di spingerci a prendere la rincorsa per abbuffarci di tutto quello che ci capita a tiro. Anche di cose meno buone o necessarie. Un po’ come Pinocchio che ha mangiato persino le bucce e i torsoli delle tre pere che Geppetto gli aveva sbucciato e che lui, “schizzinoso di palato” aveva, in un primo momento, scartato.

 

A quale “normalità” ritornare?

Sarà perciò importante, nel progressivo ritorno alla normalità, non mettere su di tutto pur di attirare fedeli e recuperare consenso. Per noi vale sempre il criterio del discernimento comunitario ecclesiale e della sobrietà-essenzialità, anche sul fronte spirituale e devozionale. Nel frattempo, ritengo sia forse ancora un po’ prematuro fare progetti e piani pastorali, perché non sappiamo come si evolverà l’epidemia e ogni discorso potrebbe alla fine rivelarsi, come si dice, “aria fritta”.

Certamente, immaginare l’immediato futuro è importante per non rimanere desolatamente frustrati sullo status quo, ma ci vuole, a mio avviso, prudenza, buon senso e tanto senso della realtà. Avere fiducia e speranza è anche questo: vivere pienamente il presente lasciando che il futuro ci venga incontro e ci dischiuda le porte, indicandoci qualche strada nuova da percorrere. Dio sa parlarci anche attraverso gli eventi tristi e drammatici affinché possiamo convertirci e andare oltre ai soliti modi di essere Chiesa e di fare pastorale. Sarà, piuttosto, importante nei luoghi e nelle sedi proprie, oltre che pensare a come riprendere i “discorsi interrotti”, valutare quale semplificazione e contenimento della pastorale è possibile promuovere in modo da non ritornare più obesi di prima; chiederci che passi avanti possiamo fare per essere una Chiesa e delle comunità cristiane più evangeliche, solidali e missionarie.

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