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El Salvador: sicurezza senza diritti

Nel Paese il presidente Bukele trionfa alle elezioni, ma la democrazia rischia di essere solo un ricordo. L’allarme di una voce “anonima”
15/02/2024

“Qui ormai è un problema anche parlare”. La “voce trevigiana” che giunge da San Salvador chiedendo l’anonimato fotografa il “clima” che si vive nel più piccolo Paese dell’America Latina continentale, l’El Salvador. Una storia recente travagliata, e per certi aspetti paradigmatica delle tensioni del Continente, quella salvadoregna, che ha conosciuto, nella seconda metà del secolo scorso, la dittatura, gli “squadroni della morte”, il martirio di tanti cristiani, sacerdoti, religiosi, laici, a partire dall’arcivescovo Oscar Romero. Poi, la difficile transizione democratica, che sembrava aver messo radici, nonostante non fosse mai stata fatta verità sul triste passato.

Oggi, quella democrazia è messa in crisi, anche se il popolo ha appena “incoronato”, lo scorso 4 febbraio, con la percentuale “bulgara” dell’85%, il presidente uscente Najib Bukele, politico anomalo, che dopo aver tentato una qualche forma di accordo con le potentissime bande criminali, le cosiddette “maras”, ha deciso di dichiarare guerra alla criminalità, usando il “pugno di ferro”, riempiendo le carceri salvadoregne di giovani, anche solo sospettati di avere a che fare con la delinquenza.

Si è arrivati al punto che il 2% della popolazione si è trovata a vivere in carcere, soprattutto tantissimi giovani. Per dare l’idea, si tratta di una percentuale venti volte maggiore rispetto alla situazione italiana, e comunque la più alta al mondo. D’altro canto, è indubbio che tutti gli indici di criminalità, in El Salvador, sono drasticamente diminuiti, e che quello che era uno dei Paesi più insicuri del Continente, ora, al contrario, è uno dei più tranquilli. Ma a caro prezzo. Da un lato, i diritti umano sono stati messi nel dimenticatoio. Dall’altro, è completamente “saltato” l’equilibrio tra poteri. “Qui ormai tutto è controllato, anche la libertà di parola è a rischio. Il presidente, all’inizio, aveva fatto anche cose buone, poi ha iniziato a governare in modo autoritario, sta concentrando tutto il potere nelle sue mani. Mesi fa ha liberato dal carcere settemila giovani, rinchiusi per più di un anno in un luogo invivibile, solo per dei sospetti. Erano tutti innocenti, hanno la vita rovinata”.

La stessa vittoria elettorale, ottenuta in seguito a una ricandidatura che la Costituzione non prevedeva, ha assunto contorni incerti. I risultati definitivi ancora non ci sono, Bukele si è subito proclamato vincitore. “Ma nessuno dice che più del 50% della popolazione non ha votato, che gli spazi di democrazia si sono ristretti. I Comuni sono passati da 160 a 40, i parlamentari da 82 a 60. Ci sono molti sospetti di brogli”.

“Quella di Bukele è una politica che si basa sull’accumulo totale del potere nel Paese, senza alcun contrappeso, a livello di sistema politico, di divisione dei poteri, a partire da quello giudiziario. Il Governo, dopo che, inizialmente, aveva trattato con la criminalità, si è posto l’obiettivo di reprimere, di mettere in carcere le persone, senza avere una particolare attenzione per i diritti umani”. A confermarlo è il politologo salvadoregno José Miguel Cruz, docente all’Università internazionale della Florida, con sede a Miami, negli Usa.

“Apparentemente, questa politica è stata efficace - afferma il politologo -. La presenza delle bande criminali si è ridotta, la violenza è molto calata, pur a costo di vedere persone innocenti finire in carcere. Grazie a questi risultati, ha accumulato potere e consenso, fino alla rielezione”. Tuttavia, “questa situazione non è sostenibile per un tempo prolungato. Le migliaia di detenuti, spesso giovanissimi, prima o poi usciranno dal carcere, e sappiamo bene che le strutture penitenziarie sono scuole di violenza. Inoltre, si tratta di una politica molto dispendiosa”. E, in ogni caso, non esportabile, come invece molti vorrebbero far credere: “L’El Salvador è un Paese piccolo, nel complesso controllabile, i gruppi criminali non sono numerosi. In altri contesti, la realtà della criminalità è molto più articolata e complessa”. Certo, a questa situazione si è arrivati anche per i limiti dei partiti tradizionali, per “il discredito nel quale è caduta la politica, cui va aggiunta la tradizionale debolezza della società civile, spesso cooptata dal potere politico. Oggi, però, proprio dalla società civile emergono segni di novità, di rafforzamento”.

Tra le poche voci libere, spicca quella il cardinale Gregorio Rosa Chávez, vescovo ausiliare emerito di San Salvador, già segretario dell’arcivescovo martire Oscar Romero, che ha parlato, a proposito di queste elezioni, di “rischio di monopartitismo”. Secondo il porporato, “di fronte a una massiccia violazione dei diritti umani, il Governo rimane insensibile ed è disposto a prolungare lo stato d’eccezione, senza preoccuparsi della sofferenza di migliaia di famiglie colpite. Grazie a Dio, migliaia di prigionieri sono stati rilasciati, ma quasi nessuno osa parlare per paura di rappresaglie. Siamo di fronte a un regime di terrore”.

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