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Da Venezia81, in sala “Campo di battaglia” e “Il tempo che ci vuole”

Nei cinema da settembre due titoli protagonisti all’81a Mostra del Cinema di Venezia: “Campo di battaglia” di Gianni Amelio e “Il tempo che ci vuole” di Francesca Comencini.

“Campo di battaglia”. Con il suo ultimo film Amelio racconta le ultime settimane della Grande Guerra al seguito di tre medici al fronte. Una riflessione che ricorda non poco “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, romanzo di Erich Maria Remarque, che nel 2022 è stato adattato nuovamente al cinema da Edward Berger (su Netflix). Scritto insieme ad Alberto Taraglio, “Campo di battaglia” si ispira al romanzo “La sfida” di Carlo Patriarca. La storia. Italia 1918, a poche settimane dalla fine del conflitto in un ospedale militare si trovano a operare due medici ufficiali, Stefano e Giulio, legati da una lunga amicizia ma diversi per metodo. Con loro anche l’infermiera Anna. Il mondo intorno si sfalda, tra sofferenze, paure e assenza di futuro...

Interpretato con grande controllo e forza espressiva da Alessandro Borghi, Gabriel Montesi e Federica Rosellini, “Campo di battaglia” conferma ancora una volta le qualità narrative di Gianni Amelio, la sua capacità di tradurre la complessità di ferite della Storia in maniera comprensibile, accessibile, al vasto pubblico. Qui lo sfondo è la Grande Guerra, il buco nero che ha estirpato un’intera generazione di giovani in Italia e nel resto dell’Europa. Amelio offre una potente suggestione, una critica alla meschinità e inutilità della guerra, pur non inquadrandola mai; l’azione, infatti, è sempre tra le corsie di un ospedale, affollato da anime disgraziate e mutilate. Un racconto di impostazione classica, intenso e dolente, che raggela e sconvolge. Complesso, problematico, per dibattiti.

“Il tempo che ci vuole”. Come una corrispondenza, un dialogo, mai interrotto, tra un padre e una figlia, tra un maestro e un’allieva: è “Il tempo che ci vuole”, il nuovo film di Francesca Comencini, una coproduzione Italia-Francia. L’autrice (ri)apre i cassetti della memoria raccontando il suo rapporto con il padre Luigi, maestro del cinema italiano, dalle atmosfere sognanti dell’infanzia alla stagione della ribellione coincisa con gli anni di piombo e il rapimento di Aldo Moro. Un viaggio emozionale, tra dolcezza e malinconia, che si muove tra pubblico e privato. Ottimi Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano.

La regista tratteggia un racconto avvolgente a due voci, riavvolgendo il nastro dei ricordi familiari e professionali. Il suo fare cinema, la scelta di essere una regista, lo deve al padre Luigi; ma ancor di più, deve a lui il suo essere una donna solida e risolta, la vittoria nella battaglia contro dipendenze e fragilità. Con grande coraggio l’autrice apre il proprio album di memorie, mostrando tutto di sé e del rapporto con il padre: dagli aneddoti casalinghi o da set, al momento in cui il grande regista mette da parte l’arte per seguire il percorso di ripresa e riscatto della figlia, prigioniera di anni difficili, di sirene politico-sociali corrosive. Un’opera onesta, dolce, marcata da poesia, da accogliere come una confidenza e al contempo una lezione sul cinema. Consigliabile, problematico, per dibattiti.

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