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Editoriale: Un presidente di tutti

Prendono il via il 24 gennaio le votazioni a Camere riunite per l'elezione del nuovo presidente della Repubblica. Un passaggio particolarmente importante, nell'attuale situazione e per i delicati equilibri politici. La speranza è che prevalgano l'unità e la saggezza

20/01/2022

Lunedì 24 i senatori e i deputati, riuniti in seduta comune con i 58 rappresentanti delle Regioni (in tutto 1009 “grandi elettori”), saranno chiamati a scegliere il nuovo Presidente della Repubblica. Evidentemente, è questo un momento assai delicato e cruciale per gli equilibri politici e per il futuro dell’attuale ampia maggioranza che sostiene il Governo Draghi. Qualora, infatti, si radicalizzassero le posizioni tra centrodestra e centrosinistra ci sarebbe il rischio di una spaccatura, con l’elezione o di un Presidente di parte e, quindi, non riconosciuto dalla metà del Paese, o di uno di “basso profilo”, per “accontentare” tutti.
Le premesse non sono certo buone, dal momento che il centrodestra ha ufficializzato come suo candidato l’ottantacinquenne Silvio Berlusconi, rifiutato, però, di netto da Giuseppe Conte del M5S e da Enrico Letta del Pd, che ritengono una tale candidatura “divisiva e irricevibile” e chiedono, invece, di trovare un accordo su un candidato di alto profilo istituzionale e in grado di rappresentare effettivamente l’unità del Paese.

L’eterno ritorno
L’autocandidatura di Berlusconi, inizialmente fatta propria da Matteo Salvini e Giorgia Meloni (pare senza troppa convinzione) sta agitando la vigilia del voto. Il Cavaliere, uomo certamente ambizioso, di grande esperienza e successo, è un personaggio che, per i suoi trascorsi imprenditoriali, politici e giudiziari, in tanti suscita avversione e rifiuto, a volte viscerali, perché, da premier e da capo indiscusso del “suo” partito, avrebbe spesso piegato le istituzioni ai propri interessi. Di contro, da tanti altri, è ammirato, a volte persino adulato, e ritenuto un “perseguitato” dalla magistratura. La nostra storia politica degli ultimi trent’anni, da quando cioè nel 1994 è “sceso in campo”, è stata contrassegnata da questa presenza “scomoda e controversa” per molti, provvidenziale per altri.

Proprio per questo, non è campato in aria chiedersi se sia nelle condizioni di poter rappresentare l’unità del Paese.
Forse, il centrodestra avrebbe fatto meglio ad andare da subito al confronto con gli altri partiti, al fine di individuare o proporre una personalità “moderata”, eventualmente vicina alla propria “area” politica. Il nuovo ritorno in campo del redivivo Berlusconi ha probabilmente spiazzato gli altri leader della coalizione e li ha costretti a dargli sostegno, anche se Salvini ha voluto tenersi le mani libere, chiedendo al Cavaliere certezze sui numeri che riuscirà a raccattare in Parlamento (soprattutto - ironia della sorte - tra i transfughi da quel M5S che lo ha sempre ostracizzato) e non disdegnando, nel frattempo, di cercare un “piano B”, dialogando con altri soggetti politici, primo fra tutti il vulcanico e imprevedibile Matteo Renzi, che sembra ben disposto, ancora una volta, a porsi come arbitro della situazione.

Draghi e il Colle
Sullo sfondo rimane sempre la candidatura di Mario Draghi, sul futuro del quale, però, nemmeno dentro il Pd sono tutti concordi. Infatti, alcuni (come Letta) lo vorrebbero al Quirinale da dove, per sette anni potrebbe, in qualche modo, incidere sulla politica italiana e, al tempo stesso, dato il prestigio di cui gode, su quella europea. Altri, invece, (come Franceschini e Orlando e, forse, anche Salvini) lo vorrebbero al Governo perché, ammesso che le loro dichiarazioni concordino con le intenzioni, sarebbe attualmente l’unica persona in grado di tenere insieme i partiti che ne fanno parte, portare avanti il Pnrr e condurre a termine la legislatura.
Riteniamo, però, che, fatto un nuovo Presidente, gli scenari che si apriranno saranno imprevedibili. Potrebbe (il condizionale è d’obbligo) anche essere provocata una crisi di Governo, con la prospettiva di elezioni anticipate (difficile, però che ciò accada prima di settembre, il termine per salvare la pensione ai “peones”, quelli che non troveranno più posto nel prossimo Parlamento). Certo, è anche possibile che si tiri avanti con Draghi per un altro anno, fino a marzo 2023, scadenza naturale della legislatura. In entrambi i casi, però, il “nostro” si troverebbe, poi, “disoccupato”, perché la maggioranza che uscirà dalle urne di sicuro metterà alla guida del Governo un proprio politico e non certamente, di nuovo, un “tecnico”.
Siamo perciò convinti che, se vogliamo “tenerci” Draghi e giocarci, nell’Europa del dopo Angela Merkel e del dopo Brexit, la sua riconosciuta e ormai indiscussa autorevolezza, l’unica strada che ci rimane è quella di farlo salire al colle del Quirinale.

Una politica per soli uomini
Purtroppo, è solo di striscio e, forse, per salvare la faccia, che i partiti in questo frangente, di tanto in tanto, fanno per la Presidenza della Repubblica anche il nome di una donna. Di fatto, in campo politico, l’Italia è un Paese irriducibilmente maschilista, tanto che in oltre 75 anni di storia repubblicana, mai una donna è stata annoverata tra i 30 presidenti del Consiglio (che hanno presieduto ben 67 governi) e i 12 presidenti della Repubblica. I partiti italiani (e spesso anche le correnti interne), però, non sono da meno. A tutt’oggi solo Fdi è guidata da una segretaria donna, Giorgia Meloni. In quasi tutti gli altri sembra ci stiano solamente per un formale rispetto delle “quote rosa”, quasi per “coreografia”.

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