Indubbiamente, quello che ci appare nel racconto è un Gesù umano, compassionevole e misericordioso verso...
I miei sei mesi in Ciad: la gioia di sentirsi a casa
Martina Fanti, fisioterapista, ha prestato servizio nella missione diocesana di Fianga. La sua attività si è affiancata al desiderio di incontrare e conoscere persone.

Eccomi di ritorno. Sei mesi volati, passati come un soffio, ma già incisi in maniera indelebile nel mio cuore, perché così intensi e ricchi, che le emozioni che provo sono quasi impossibili da trasmettere a parole.
Mi chiamo Martina e ho vissuto a Fianga, un villaggio a sud del Ciad, in una missione della diocesi di Treviso, con dei fantastici compagni di avventura: don Mauro Fedato, don Silvano Perissinotto e don Mauro Montagner (che è arrivato in sostituzione di don Stefano Bressan). In loro ho trovato una famiglia meravigliosa, sempre pronti ad accogliermi, a confrontarsi, a condividere, sia le gioie che le tristezze. E per me è stato davvero vitale, il mio ringraziamento e la mia gratitudine vanno in primis a loro.
Vicino alla missione c’è anche una comunità di suore senegalesi: in questo momento son solo due, suor Odette e suor Prudence, che si prodigano per cercare di seguire tutti gli impegni parrocchiali che hanno, tra cui un progetto di formazione taglio e cucito per le donne. La donna rispetto all’uomo è sempre in condizione di svantaggio: la famiglia fatica a investire sulle bambine, per esempio mandandole a scuola, perché loro in futuro saranno destinate a un’altra famiglia e quello che conta soprattutto è che sappiano prendersi cura della casa.
Fisioterapista a servizio della missione
Ho lavorato come fisioterapista (è il lavoro di Martina, all’ospedale San Camillo di Treviso, ndr), in un piccolo centro disabili chiamato “Urgo cin see” (Alzati e cammina, in tupuri, la lingua locale più diffusa), all’interno dell’ospedale pubblico, assieme a due colleghi chiamati entrambi Pascal. Nonostante le condizioni non propriamente ottimali (materiale scarso e rattoppato, condizioni igieniche scadenti, elettricità presente solo qualche ora, acqua corrente non ne parliamo, in alcuni mesi caldo insopportabile con punte di 45°, mosche dappertutto, organizzazione lavorativa un po’ carente), la sintonia che si è creata tra noi, sia tra terapisti che con i pazienti, è stata magica.
Ci sono stati periodi in cui i pazienti scarseggiavano: accedere all’ospedale costa e se non hai soldi (situazione frequente) non riesci a farti curare. La sanità è un disastro, le diagnosi spesso non sono corrette; inoltre la gente non dà così tanta importanza alla disabilità, o forse preferisce ancora rivolgersi ai guaritori tradizionali.
Poiché i due Pascal sono prossimi alla pensione, nel mese di marzo mi è stato chiesto di organizzare una formazione fisioterapica compresa di teoria e pratica a quattro giovani leve, destinate a lavorare ai centri di Fianga e Pala. Nonostante la paura dell’alta aspettativa che mi è subito sorta, come sempre la mia amica Provvidenza in compagnia dell’immancabile Spirito Santo e del sostegno paziente di chi mi stava vicino e credeva in me, hanno reso questa esperienza costruttiva e bellissima.
I primi mesi ho dedicato il tempo libero soprattutto a stare con i giovani: mi sono infilata nella corale parrocchiale, ho dato qualche lezione di chitarra, ho trascorso pomeriggi al centro culturale con attività per bambini e per giovani. Con i primi casi di Covid nella capitale e l’arrivo delle misure restrittive, la vita sociale di Fianga è praticamente morta: fermate le scuole, le messe, qualsiasi attività e riunione. Si cominciava a sentire in giro che fosse vietato pure il mercato, ma questo non sarebbe stato concepibile: tutto gira attorno al mercato e senza di quello la gente non mangia. Quindi la vita, in verità, è continuata abbastanza regolare, la malattia non pare arrivata, anche se è difficile esserne sicuri, senza dei mezzi per testarlo!
Ma, sinceramente, se dobbiamo paragonarla a tutte le altre malattie che uccidono qui, per ora non c’è storia: tra malaria, aids, epatite, febbre tifoide, tubercolosi e malattie ignote, la gente muore costantemente. Quando passando per le strade chiedevo alle persone dove andassero (ormai che avevo imparato le classiche domande in tupuri avevo preso la simpatica abitudine di farmi anch’io gli affari degli altri) mi rispondevano sempre o al mercato o a un funerale!
Quando mi spostavo cercavo di farlo sempre a piedi: non c’è modo migliore per conoscere la gente, tanti bambini corrono fuori dalle case per urlare i loro saluti e darmi il cinque, tanti urlano direttamente da dentro casa. Spettacolo.
Certo, non tutto è rose e fiori, naturalmente. C’è chi chiede subito di dargli qualcosa. Qualche bambino con aria un po’ strafottente e di sfida mi chiedeva soldi. D’altronde sono “bianca” e, di conseguenza, ricca. Ammetto che un po’ di fastidio, sconforto e tristezza mi salivano ma in fin dei conti è vero, più di tanto non potevo neanche controbattere. E, dunque, non avevo alternative se non zittirmi e farmi seppellire da domande, dubbi che chissà se mai troveranno risposta.
Ma più il tempo passava e più era bello sentire radicata la sensazione di sentirmi a casa. Ogni volta che mi trovo in un posto nuovo, qualsiasi esso sia, l’inizio è sempre difficile, ma poi con l’accrescere delle relazioni tutto si trasforma! Conosco la gente e la gente mi conosce, mi fa sentire amata.
Adoravo la strada che facevo per andare in ospedale, la gente che incontravo ogni giorno mi trasmetteva forza, energia, coraggio.
Adoravo quando mi chiamavano Maytupuri, figlia dei tupuri. Adoravo quando era il momento di ballare, il momento che mi faceva sentire più viva in assoluto: il ritmo incalzante al battito dei tam tam, tra voci potentissime, avvolti in un turbine di energia, di forza, con la polvere che si innalzava e ti avvolgeva e si diventava così un tutt’uno anche con la terra. Mi metteva in sintonia totale con la gente e con questa terra, un gridare il sì alla vita. In più, sapere che il posto dove doveva venire Luciano (lo zio di Martina, Luciano Bottan, vittima di un incidente stradale in Ciad, proprio mentre si stava recando nella missione diocesana, ndr) è diventato così tanto parte di me sicuramente mi emoziona e mi onora.
La liberazione di Silvia accolta in Africa
Ho accolto con estremo sollievo e tantissima gioia la notizia della liberazione di Silvia Romano. Quando è avvenuto il suo rapimento, io ero tornata da poco da un’esperienza missionaria di sei mesi in Mali.
La consapevolezza che sarebbe potuto accadere a me al posto suo mi ha fatto sentire assolutamente vicina a lei.
E ho provato non poca amara incredulità per tutto ciò che è stato detto su di lei, allora come al momento della liberazione.
Possiamo solo immaginare quanta paura abbia provato nel periodo della sua detenzione.
Lei ha solo avuto il coraggio di rischiare nel condividere e donare un po’ della sua vita.
Bisogno di autenticità
Immersa ancora una volta nella vita africana mi sono resa conto del perché ne ho così tanto bisogno. L’autenticità che si respira è così forte, l’essere a contatto con la semplicità e l’essenzialità ribalta completamente il modo di vedere e assaporare la vita.
E’ un mondo duro, uomini e donne lavorano costantemente e senza agi, ma nello stesso tempo è così reale. La prospettiva di vedere le cose, le priorità sono tutt’altre rispetto al nostro mondo. Così assurdamente diverse.
Sembra banale, perché sappiamo benissimo tutti quant’è grande il divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri, ma quando in questi ultimi ci sei completamente immerso è molto più facile prenderne atto.
E anche un po’ essere sommersi da sentimenti confusi, tra incomprensione, rabbia, tristezza, ma anche gratitudine, rispetto, stupore, amore.