Indubbiamente, quello che ci appare nel racconto è un Gesù umano, compassionevole e misericordioso verso...
Appassionato di Gesù Cristo: quarant'anni fa moriva Paolo VI
Il 6 agosto 1978 moriva Giovanni Battista Montini, che il prossimo 14 ottobre sarà proclamato santo da papa Francesco. La sua passione per Cristo lo ha reso sensibile alle nuove vie che lo Spirito apriva nel nostro tempo.

“Poi io penso, qui davanti alla morte, maestra della filosofia della vita, che l’avvenimento fra tutti più grande fu, per me, come lo è per quanti hanno pari fortuna, l’incontro con Cristo, la Vita”. Così scriveva ormai al tramonto della sua vita papa Paolo VI, in alcune note personali.
Ora che si avvicina il giorno della sua canonizzazione, queste parole ci ricordano che ogni storia di santità è la storia unica e irripetibile di un incontro con il Cristo lungo i sentieri della propria vita. C’è un’immagine emblematica di Paolo VI che lo ritrae nel Cenacolo, durante il primo viaggio compiuto da un papa dopo Pietro, nella terra di Gesù. Vi si coglie tutta la densità di quei dieci minuti di preghiera, che riprendono il papa inginocchiato fuori dal tappeto preparato per lui, unica concessione, essendogli stata impedita ogni celebrazione in quel luogo. E’ un’immagine che dice quanto fosse intensa la relazione di Paolo VI con il suo Signore.
Uno stile intenso. “Intensità” è una di quelle parole che più illuminano la figura di papa Montini. Spesso ci fu chi, in modo superficiale, contrapponeva lo stile sobrio e riservato di Paolo VI alla bonomia espansiva di Giovanni XXIII. Eppure, anche senza averlo incontrato, basterebbe osservare tante immagini della sua vita, e leggere le sue parole, per avvertire quanto l’intensità del suo incontro con Signore si traduceva nell’intensità delle relazioni con le persone che lo avvicinavano. “Esistevi solo tu”, dicevano quanti lo incontravano. Ne rimase profondamente colpito un pastore protestante, frère Roger di Taizè, che avendolo più volte avvicinato ancor prima che fosse Papa, confidava il ricordo del loro ultimo incontro: “Sul viso di quell’uomo traspariva la santità di Gesù Cristo, e gliel’ho detto”.
Le tre domande e l’unica risposta. Nel discorso di apertura della seconda sessione del Concilio, dopo la morte di Giovanni XXIII, papa Paolo si pose tre domande: “Da dove partire? Che cammino percorrere? A quale meta tendere?”. Questa fu la sua unica risposta: “Cristo! Cristo nostro principio! Cristo nostra via e nostra guida! Cristo nostra speranza e nostro termine! (...) Nessun’altra ispirazione ci guidi, che non sia il desiderio d’essere a Lui assolutamente fedeli, nessun’altra fiducia ci sostenga”. Fu questa passione per il Cristo che, da sempre, lo aveva reso sensibile alle nuove vie che lo Spirito apriva nel nostro tempo per un rinnovato incontro con Gesù. Come non ricordare l’accoglienza che l’allora giovane Sostituto della Segretaria di Stato Vaticana seppe dare alla nascente esperienza dei Piccoli Fratelli e delle Piccole Sorelle di Gesù di padre De Foucauld? Negli anni del dopo Concilio, alla domanda non tanto di nuove strutture, ma di una vita nuova nella Chiesa, Paolo VI seppe riconoscere la “chance” del Rinnovamento carismatico cattolico (poi Rinnovamento nello Spirito) che muoveva i primissimi passi. Nel 1973 si fece proiettare in Vaticano il musical “Jesus Christ Superstar”, e commentando in un’udienza il rinnovato interesse giovanile per Gesù, osservava: “Dunque un interesse per Gesù esiste tutt’oggi nel nostro mondo moderno... Esiste in certi segni curiosi e bizzarri... Giovani «hippies» vestiti di maglie portanti delle scritte cubitali: io amo Gesù (“I love Jesus”). Come mai?... Sarebbe venuto il momento dello «slogan» Gesù?”.
“Convinto di Cristo”. Fu nel grande viaggio in Asia che papa Paolo VI espresse in modo insuperato la centralità di Cristo nella sua vita, al punto che l’omelia pronunciata a Manila il 29 settembre 1970 è entrata nella preghiera ufficiale della Chiesa (Ufficio di Letture della XIII domenica del tempo ordinario). In quella celebrazione, di fronte a milioni di fedeli, portando nel corpo la ferita dell’attentato a cui era sfuggito, esclamò: “Io, Paolo, successore di san Pietro, non sarei venuto da Roma fino a questo paese estremamente lontano, se non fossi convinto... di Cristo! Sì, io sento la necessità di annunciarlo, non posso tacerlo... Io sono apostolo, io sono testimonio...”. E dopo aver lungamente descritto i tratti della persona di Cristo, quasi tirando un profondo respiro, confessa: “Io non finirei più di parlare di Lui... Ricordate e meditate: il Papa è venuto qua fra voi, e ha gridato Gesù Cristo”.
L’amore per Cristo ha condotto Paolo VI a percorrere le vie più dolorose del suo tempo, come è emblematicamente espresso nell’immagine del papa che porta la croce il venerdì santo al Colosseo. Ricordava il suo segretario, mons. Pasquale Macchi: “Se mi domandaste quale fu la pena che più rendeva faticoso il suo cammino, altra risposta non posso dare che questa: la defezione dei buoni, soprattutto dei sacerdoti e dei religiosi. Quando io gli presentavo, per la firma, i decreti di secolarizzazione, dopo aver esaminato il fascicolo mi diceva: «Questa è la mia croce più pesante»”.
Il suo Getsemani. Come Gesù, papa Paolo conobbe il suo Getsemani di solitudine e abbandono dentro la stessa Chiesa. Una solitudine che trovò poi una dolorosa attuazione nella drammatica vicenda dell’amico Aldo Moro. Durante i funerali di Stato dell’amico ucciso, celebrati senza il corpo, le parole dell’accorata preghiera in morte di quell’uomo “buono e giusto” risuonarono tra le volte di san Giovanni in Laterano come il lamento di Gesù, a cui il Padre non aveva dato risposta. Eppure, di lì a pochi giorni, nell’ultima festa dei Santi Pietro e Paolo, l’anziano papa, avvertendo vicino l’inesorabile tramonto e volendo fare una sintesi di quindici anni di pontificato non trovò parole più forti e limpide che quelle dell’apostolo Paolo, prigioniero e vicino alla morte: “Fidem servavi!” (“Ho conservato la fede”). La fede che Paolo VI sempre conservò non fu solo il “razionale ossequio” alle verità del Credo, ma l’intima relazione di fiducia con il Cristo che mai venne meno e che lo portò a scrivere al tramonto della sua vita: “Io credo, io spero, io amo, nel nome Tuo, o Signore... Nella più sconfinata fiducia. Tu lo sai che ti voglio bene”.
La sveglia polacca. Il Cristo chiamò a sé l’amico fedele nella festa della Trasfigurazione. La notte precedente, faticando ad addormentarsi, volle che il segretario gli leggesse alcune pagine su Gesù dell’amico filosofo Jean Guitton. Dal Tabor papa Paolo non è più sceso. Ora sappiamo che vive nella pienezza di quella Luce, che già in vita traspariva nell’intensità del suo sguardo. Quando morì, suonò per errore la sveglia “polacca” che molti anni prima sua mamma gli aveva regalato per la sua prima missione nella nunziatura di Varsavia. Poche settimane dopo arrivava “di un paese lontano” colui che si presentò al mondo chiedendo con voce forte: “Aprite le porte a Cristo. Non abbiate paura”.