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Lavoro e famiglia: parliamo ora di “condivisione”

Intervista all’economista Azzurra Rinaldi sugli ostacoli ancora presenti: il 73% delle dimissioni volontarie nel nostro Paese viene da lavoratrici madri
09/05/2025

Azzurra Rinaldi, economista di spicco nel panorama italiano e più precisamente economista femminista, ci racconta pieghe e risvolti del tema lavoro e famiglia.

Perché non si parla più di “conciliazione” vita-lavoro?

Il tema su cui concentrarsi è quello della condivisione, cioè nel momento in cui c’è un bambino o bambina o più bambini e bambine, il carico delle attività di cura non retribuite deve essere condiviso dai due genitori.

Siamo nel 2025, in Italia abbiamo fatto qualche passo avanti su questo aspetto?

Non direi. Il rapporto Inps uscito lo scorso 8 marzo ci dice che 1 donna su 5 lascia il lavoro dopo il primo figlio o figlia, e che nella maggior parte dei casi avrebbe voluto continuare a lavorare, ma non può farlo a causa delle attività di cura non retribuite: il 73% delle dimissioni volontarie, da nord a sud, in aree urbane e interne o insulari, senza alcuna distinzione, viene da lavoratrici madri. Poi c’è il grande tema della tipologia di occupazione: le donne sono il 64,4% delle persone che lavorano part-time. Da madre di tre figlie mi sento di sottolineare la perversione del sistema Naspi, per cui, se una donna rimane incinta entro due anni dalla nascita del primo figlio o figlia, ha diritto a due anni di retribuzione al 100%, purché si fuoriesca dal mercato del lavoro. È una perversione, perché si usano i soldi di chi paga le tasse per buttare fuori le donne dal mercato del lavoro, sapendo che difficilmente ci rientreranno, invece di aiutarle a restare.

In quali modi il tema salariale pesa sulle scelte lavorative delle donne?

Spesso sento donne fare ragionamenti tipo “se devo pagare 800 euro di tata e/o asilo tanto vale che mi licenzio”. Ragionamento che fa acqua da tutte le parti perché se il padre c’è, e Inps ci dice che mediamente gli uomini guadagnano il 20% in più rispetto a donne (con picchi, ad esempio, nel settore immobiliare del 40%), non è chiaro perché la donna pensa di doversi accollare tutte le spese, visto che se ci sono due stipendi si dovrebbe dividere per quota parte. Invece, il tema sottostante è che la donna è quella culturalmente e socialmente predisposta a prendersi cura dei figli, quindi se non se ne occupa direttamente deve essere lei a pagare quella persona che lo fa al posto suo. Il tema è sempre legato all’impostazione capitalistica del nostro sistema economico e sociale, che ci fa percepire i problemi collettivi come individuali: anche in questo caso il problema non è individuale della donna madre, ma collettivo di un sistema produttivo e riproduttivo che continua a basarsi sullo sfruttamento delle categorie marginali o marginalizzate come le donne.

Su quali punti è urgente intervenire affinché carriera e famiglia per le donne non resti un aut aut (o quasi)?

Credo fermamente che il congedo di paternità obbligatorio debba coincidere con quello di maternità. Questo perché se prevediamo che ogni volta che una donna si riproduce debba essere esclusa dal mercato del lavoro, anche l’azienda più virtuosa ha il retropensiero legato a costi e produttività e quindi sa che conviene assumere un uomo e non una donna. Equiparare i congedi, insomma, andrebbe a togliere la responsabilità normativa nella selezione del personale in ingresso. Inoltre, molti studi dicono che laddove la cura è condivisa si fanno più figli e figlie. Infine, sappiamo dalle ricerche che quel modello di gestione della cura che si consolida nel momento in cui la donna sta 5 mesi a casa e l’uomo 3 giorni, e nel frattempo cucina, fa la spesa e si occupa della casa, rimane tale anche per le donne che poi ritornano a lavorare.

Perché sanare il gender gap in ambito lavorativo porterebbe benefici alla società tutta, uomini compresi?

La verità è che il gender gap è un fallimento del mercato. Se le donne studiano di più, sono più brave, più problem solver ecc, allora non ha senso pagarle meno o addirittura ostacolarle nel lavoro. La teoria economica ha fatto fatica a riconoscere questa discriminazione perché non rientra nel canone dell’efficienza. Tenere fuori le donne dal mercato del lavoro è pil che non si crea, e prelievo fiscale che non entra nelle tasche pubbliche, diminuendo la possibilità di dare migliori servizi e infrastrutture. Senza contare che, quando le donne guadagnano di più, aumenta anche il tasso di natalità. Non è vero che se si taglia dalla torta una fetta più grande per le donne, diviene più piccola la fetta degli uomini: dai modelli e dalla pratica sappiamo che quando si introducono nuove variabili e quindi risorse, intelletto, innovazione, input produttivi ecc, semplicemente si mette in forma una torta più grande, con benefici che sono individuali, ma anche collettivi.

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