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Referendum: un voto sulle tutele

L’8 e 9 giugno seggi aperti per cinque referendum abrogativi. In questo articolo approfondiamo i quattro quesiti dedicati al lavoro

Lavoro, lavoro, e ancora lavoro. Torna al centro del dibattito sociale e politico uno dei grandi temi su cui, non servono previsioni o sondaggi a confermarlo, ogni governo in carica scende puntualmente in campo per dire la sua. E lo fa attraverso precisi indirizzi e proposte, che racchiudono altrettanto chiare scelte politiche.

Di mezzo, un referendum popolare di cui si parla ancora poco, il settantanovesimo della nostra Repubblica, il settantatreesimo di carattere abrogativo, che mira a cancellare, totalmente o in parte, leggi o norme riguardanti la disciplina giuslavoristica e non solo. Si andrà a votare l’8 e il 9 giugno, domenica dalle 7 alle 23 e lunedì dalle 7 alle 15, in concomitanza con i turni di ballottaggio previsti a seguito delle elezioni amministrative del 25 e 26 giugno.

Quattro dei cinque quesiti referendari - chiesti da +Europa, Prc, Psi, Possibile, Radicali, numerose associazioni e sindacati, come la Cgil - chiamano in causa il tema del lavoro, il quinto chiede l’abrogazione della norma che prevede dieci anni di residenza per il riconoscimento della cittadinanza.

Sui primi quattro quesiti interviene Francesco Rossi, avvocato giuslavorista, presidente dell’Ordine degli avvocati di Padova e referente scientifico del Comitato esecutivo regionale Veneto dell’associazione Giuslavoristi. Al legale abbiamo chiesto i contenuti, la situazione normativa attuale e i risvolti a seconda dell’esito decretato dalle urne.

Abrogazione del Jobs Act

“Il quesito - spiega l’avvocato - chiede l’abrogazione totale della disciplina introdotta con il cosiddetto Jobs Act, ossia con il decreto legislativo 23 del 2015, che si applica a tutti i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 e, quindi, oggi alla grande maggioranza degli occupati. Il «cuore» del quesito referendario è, in particolare, relativo all’abrogazione della disciplina sui licenziamenti introdotta dal Jobs Act, laddove prevede che, di regola, in caso di licenziamento illegittimo, spetti semplicemente un’indennità risarcitoria e la reintegrazione nel posto di lavoro sia un’ipotesi residuale (che si verificava, secondo l’originaria formulazione della norma, solo quando un licenziamento per motivi disciplinari sia stato intimato in ragione di un fatto del tutto insussistente). Anche se, a seguito di alcune sentenze della Corte costituzionale, il contenuto delle tutele originariamente previsto dal Jobs Act è stato esteso (in particolare, oggi, anche in caso di licenziamento per motivi economici se il fatto posto a base del recesso è insussistente, spetta la reintegrazione nel posto di lavoro), l’abrogazione della normativa permetterebbe certamente di ampliare in modo significativo le tutele in caso di licenziamento illegittimo. In sostanza - continua Rossi - si tornerebbe all’applicazione per tutti i lavoratori, senza distinzione fra quelli assunti prima e dopo il 7 marzo 2015, della normativa precedente, quella che oggi si applica solo ai soggetti assunti prima del 7 marzo 2015; si tornerebbe, cioè, ad applicare per tutti i lavoratori occupati l’articolo 18 dello Statuto, come modificato dalla cosiddetta riforma Fornero del 2012”.

Tetto all’indennità risarcitoria

“Il secondo quesito mira all’abrogazione del tetto massimo posto all’indennità risarcitoria nei licenziamenti illegittimi intimati a lavoratori dipendenti di imprese con meno di 15 dipendenti. Si tratta di una abrogazione parziale - prosegue il giuslavorista -, riguardante l’articolo 8 della legge 604 del 1996. Oggi, in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori occupati in imprese con meno di 15 dipendenti, l’indennità parte da 2,5 mensilità, ma non può superare le 6. Nelle aziende con più di 15 dipendenti, invece, laddove non venga disposta la reintegrazione nel posto di lavoro, può arrivare fino a 36 mensilità. Con l’abrogazione della norma, la decisione sull’entità massima da attribuire al lavoratore spetterebbe al giudice, che la determinerebbe seguendo alcuni criteri quali l’anzianità di servizio, il numero dei dipendenti occupati, la consistenza dell’impresa etc”.

L’avvocato Rossi sottolinea che, in realtà, “il vero obiettivo del referendum appare essere quello del superamento della diversità (oggi radicale) fra le tutele riconosciute in caso di licenziamento illegittimo ai lavoratori in caso operino alle dipendenze di un’impresa che abbia più o meno di 15 dipendenti. Una diversità di tutele che la Corte costituzionale ha ritenuto, anche di recente, anacronistica e rispetto alla quale ha invitato in modo perentorio il legislatore a intervenire”.

Contratti a termine

“Il terzo quesito referendario mira all’eliminazione delle norme contenute nel decreto legislativo 81 del 2015, che consentono di concludere contratti di lavoro a termine fino a 12 mesi senza la necessità di alcuna motivazione, senza che sia necessario, cioè, indicare una precisa ragione per la quale quel contratto a termine viene stipulato. Trascorsi i primi 12 mesi, per la stipula di un successivo contratto o per la proroga del primo, è anche oggi, invece, necessaria una causale, ossia una motivazione precisa per cui un termine al contratto di lavoro viene apposto e, in ogni caso, anche oggi il rapporto a tempo determinato non può mai superare complessivamente i 24 mesi”. Rossi spiega che la possibilità di concludere rapporti a tempo determinato senza la necessità di alcuna ragione (seppure solo per i primi 12 mesi) è stata vista dai promotori come un simbolo della precarizzazione del lavoro, cui si accompagna una carenza di tutele in ordine alla stabilità del rapporto stesso e una difficoltà per i lavoratori di far valere i loro diritti. “Deve ribadirsi, tuttavia, come, anche nell’attuale disciplina, l’apposizione del termine al rapporto di lavoro sia «libera» solo nei primi 12 mesi, dopo di che è sempre necessaria una ragione specifica che legittimi l’apposizione del termine, ossia una «causale», una motivazione”.

Sicurezza negli appalti

La quarta domanda propone il sì o il no all’abrogazione di norme in materia di appalti, che limitano la responsabilità delle imprese committenti, in caso di infortuni occorsi a dipendenti di imprese appaltatrici o subappaltatrici (si tratta dell’articolo 26, comma 4, del decreto legislativo 81 del 2008). “In sostanza - prosegue Rossi - la disciplina attuale prevede che dell’infortunio occorso al dipendente dell’appaltatore risponda, sotto il profilo risarcitorio, anche il committente, salvo che l’infortunio si sia verificato per violazione di norme che attengono la specifica attività svolta dall’appaltatore (per esempio, se nell’appalto relativo alla costruzione di un edificio, l’appaltatore viene incaricato di realizzare l’impianto idraulico e l’infortunio si verifica per un difetto delle attrezzature appunto impiegate dall’idraulico per realizzare l’impianto, dell’infortunio, oggi risponderà solo l’appaltatore). È proprio questa eccezione che i promotori vogliono abrogare, arrivando quindi alla previsione per cui in caso di infortunio occorso a dipendente dell’appaltatore, dell’infortunio stesso sia sempre responsabile, senza eccezioni, anche il committente”.

Ancora il giuslavorista: “È noto come il tema degli infortuni che si verificano nell’ambito delle catene di appalti e subappalti, che ormai caratterizzano l’esecuzione di qualsiasi opera di una qualche entità, sia, purtroppo, di scottante attualità. I promotori, quindi, chiedendo di estendere l’ambito della responsabilità delle imprese committenti si prefiggono di ottenere una maggiore attenzione alla sicurezza sugli appalti. L’impresa committente, infatti, ove il quesito venisse approvato, non potrà più invocare, quale esimente alla propria responsabilità, la circostanza che l’infortunio si sia verificato per violazione di disposizioni che attengono esclusivamente lo specifico ambito in cui stava operando l’impresa appaltatrice o subappaltatrice”.

Un nuovo referendum poco comprensibile

La formulazione dei quesiti referendari, a cui l’elettore deve rispondere con “sì” (per abrogare la norma) o “no”, anche per questo referendum 2025 è tutto fuorché di immediata e facile comprensione per i cittadini: “Per i quesiti di natura abrogativa il linguaggio è, per così dire, d’obbligo, visto che la forma in cui vengono esplicitati i quesiti referendari applica quanto prescritto dalla Costituzione e dalla legge” conclude l’avvocato Rossi.

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