Indubbiamente, quello che ci appare nel racconto è un Gesù umano, compassionevole e misericordioso verso...
L'esodo dei Masaai
Il Governo della Tanzania sta per avviare un piano di ricollocazione senza precedenti dei pastori degli altipiani nel silenzio dell’Europa

Il rapido tramonto del sole nel cratere di Ngorongoro, patrimonio dell’umanità dal 1979, situato nell’altopiano del Serengeti, a nord-ovest della città di Arusha, in Tanzania, sembra portare con sé tutte le contraddizioni sul significato attuale di sviluppo sostenibile. Si può anche scorgere facilmente in lontananza la maestosità del Kilimangiaro. Qui sono stati trovati i resti dei nostri antenati australopitechi di 3,6 milioni di anni fa.
La luce si ritira sulle colline che circondano il cratere, per lasciare posto alla notte e accarezza le piccole capanne rotonde dei boma, i villaggi tradizionali dei Maasai, che si riempiono di animali rientrati dal pascolo. Ma nulla di questa estasi è davvero oggi come ci viene descritta nei documentari o nei cataloghi di viaggio. Per i Maasai questo continua a essere il paese di Dio (che chiamano Ngai), anche se è un territorio sempre più problematico e denso di conflitti a bassa intensità.
Da una parte i Maasai, che negli anni ’50 del secolo scorso ottennero dall’autorità coloniale britannica il permesso di continuare ad abitare nel cratere e sulle sue pendici. Dall’altra parte, il Governo centrale, che si sente addosso tutte le contraddizioni implicite in un modello di protezione ecologica che non regge più e in nome degli obiettivi dell’Agenda 2030 sta per avviare un piano di ricollocazione forzosa senza precedenti - sollecitato e approvato anche dall’Unesco - che interesserà quasi 100 mila persone, perlopiù pastori Maasai, presenti da generazioni nel parco e che con il loro stile di vita hanno agito da guardiani della savana.
Il piano governativo prevede entro il 2030 l’estensione della zona di competenza dell’area protetta del Ngorongoro di altri 4.000 km quadrati, creando un corridoio per la fauna selvatica che sarebbe utilizzato per i safari di caccia: viene così drasticamente ridotto il territorio disponibile per la pastorizia e l’agricoltura delle popolazioni residenti. Annunciato lo scorso aprile, avrebbe già portato almeno 20 mila Maasai - definiti dalle autorità come persone immigrate irregolari nella zona in quanto prive di documenti di residenza - a spostarsi ai margini del parco. In queste ultime settimane un’accelerazione nelle ingiunzioni di sfratto sta portando a crescenti proteste tra i pastori degli altipiani.
Le ong a tutela delle popolazioni native segnalano che questo piano si configura come un land grabbing pubblico, legittimato dal conservazionismo naturale, di fatto area su cui investitori stranieri da tempo hanno messo mano per poter sfruttare la crescente industria del turismo d’élite, ma anche per poter ricercare nuovi giacimenti di terre rare. Del tutto inutile è risultato finora il richiamo fatto alla Tanzania del pieno rispetto della firma apposta sulla Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni. Molto più forte è infatti la contraddizione sostanziale in cui è imbrigliata la conservazione in Africa: la protezione della natura africana e il suo sviluppo dipendono da un assetto politico-economico deciso fuori dal continente!
Abbiamo raggiunto Anuradha Mittal, direttore esecutivo dell’Oakland Institute che sta seguendo il caso.
Qual è la situazione oggi per i Maasai tanzaniani?
Per secoli i Maasai sono stati amministratori e custodi della terra nella Great Rift Valley dell’Africa orientale. Il loro stile di vita, i loro mezzi di sussistenza e la loro cultura dipendono dai fiorenti ecosistemi circostanti. Questo tipo di cura e conservazione a lungo termine dovrebbe essere premiato e lodato. Invece, i Maasai stanno combattendo per la propria vita, affrontando violenze, sfratti, fame e malattie a causa degli interessi economici di investitori stranieri e imprese turistiche. Nel secolo scorso, numerose leggi sulla terra - approvate prima dal Governo coloniale britannico e poi dal Governo tanzaniano, spesso con il sostegno e l’appoggio di gruppi internazionali di conservazione - hanno costretto i Maasai a occupare appezzamenti sempre più piccoli, soffocando i loro mezzi di sussistenza e minacciando la loro stessa esistenza. Nonostante la promessa che i Masai avrebbero avuto la priorità quando è stata creata la Ngorongoro conservation area (Nca) nel 1959, sono stati sempre più emarginati nella gestione della zona.
Tutto questo che cosa sta comportando?
Le attuali restrizioni alla coltivazione di orti di sussistenza e le limitazioni alle aree in cui i pastori possono pascolare il bestiame e accedere all’acqua stanno provocando una grave insicurezza alimentare, di cui poco si parla. Come ha condiviso un anziano Maasai da me intervistato recentemente: “Noi, residenti di Ngorongoro, non abbiamo cibo. Stiamo morendo di fame permanente a causa di cattive politiche”.
Siamo nei fatti di fronte a un land grabbing pubblico?
In parte credo di sì. Le attuali sfide per i Maasai sono terribili: devono affrontare un nuovo reinsediamento e un piano governativo di utilizzo turistico del territorio che minaccia la loro stessa sopravvivenza. Inoltre, il Governo tanzaniano ha proposto un piano che sfratterebbe altri 80 mila Maasai residenti dalla loro terra. Se approvato, il piano amplierà entro il 2030 le dimensioni dell’Nca da 8.100 kmq a 12.083 kmq.
Quali gli effetti per i Maasai dell’ampliamento della riserva del Ngorongoro?
Con la sua espansione, la nuova Nca riduce significativamente la terra a disposizione dei Maasai per la pastorizia, gli insediamenti e l’agricoltura, cruciali per la loro vita e il loro sostentamento. Ciò è particolarmente devastante data la grave insicurezza alimentare che i Maasai già affrontano con le restrizioni esistenti.
Perché è dannoso rompere questo speciale genotipo tra Maasai e savana?
La narrativa secondo cui la crescente popolazione indigena è responsabile del presunto declino ecologico all’interno dell’Nca ignora la relazione simbiotica finemente affinata che i Maasai hanno sviluppato nel corso dei secoli e che ha consentito di mantenere un ecosistema integrato, consentendo alle persone e al bestiame addomesticato di coesistere in un ambiente con scarse risorse. Questa conoscenza locale è stata ampiamente accreditata per aver consentito alla grande popolazione di mammiferi e alla diversità ecologica di crescere sotto la guida dei Maasai. Che la pastorizia sia compatibile con la conservazione della fauna selvatica è oggi ampiamente riconosciuto.
Cosa fare per rimanere informati sulla situazione?
Perché i Maasai non si riducano ad animatori turistici in costume, come avviene da tempo nel vicino Kenya, è necessario che la comunità internazionale sia sensibilizzata su quanto sta succedendo. E’ possibile firmare una petizione lanciata insieme a Rainforest Rescue al Governo tanzaniano e al Comitato del patrimonio mondiale dell’Unesco: https://www.rainforest-rescue.org/petitions/1242/tanzania-stop-the-eviction-of-the-maasai-from-ngorongoro.