Sentiamo anche il dovere di segnalare la difficile e a volte critica situazione in cui versa oggi nel...
L’arcivescovo Repole di Torino al ritiro dei sacerdoti diocesani





La costituzione conciliare Gaudium et spes, sessant’anni dopo, è ancora una bussola per “leggere i segni dei tempi”. Da questa affermazione, il cardinale Roberto Repole, arcivescovo di Torino, è partito per offrire ai sacerdoti della diocesi, riuniti in ritiro a San Nicolò, la sua riflessione, intitolata appunto, “Leggere i segni dei tempi, a 60 anni da Gaudium et spes”. Un intervento che è possibile rivedere sulla pagina Youtbe della Diocesi di Treviso.
Repole è partito dal riconoscimento dell’autonomia delle realtà terrene, evidenziata dal documento conciliare, per invitare, quindi, a una riflessione sui cambiamenti enormi degli ultimi decenni. Un periodo connotato dalla secolarizzazione, fenomeno già visto dai padri conciliari, ma che in anni recenti si è acutizzato e ha “cambiato pelle”. “In fondo - ha fatto notare il porporato - fino a un certo momento, i valori cristiani e quelli della società secolarizzata erano compatibili, anche se, magari, con fondamenti diversi. Basti pensare a Peppone e don Camillo, il cui conflitto era, in fin dei conti, benevolo”, dentro a un quadro di riferimento condiviso. Oggi, invece, “qualcosa di profondo è cambiato”, ha avvertito Repole. Il punto di frattura è il Sessantotto, come ha intuito il sociologo Charles Taylor, che parla di “rivoluzione individualizzante”. Negli ultimi decenni, abbiamo assistito al trionfo dell’individualismo che possiamo chiamare “espressivo”, un fenomeno di massa in cui la persona mette al centro la propria realizzazione personale, e lo fa con una peculiarità, indicata dal politologo e sociologo Olivier Roy: “Il desiderio sostituisce la ragione come fondamento dell’autonomia e della libertà”. Un fenomeno che tende a erodere le stesse società, il senso di comunità, anche perché su questo contesto si inserisce un “capitalismo cannibale”, che “si nutre degli stessi legami sociali che servono, ma vengono disintegrati dal capitalismo stesso”.
Che fare dunque? Anzitutto, questo processo deve essere visto in maniera lucida, rendendoci conto che noi “avevamo costruito le parrocchia su una società che è tale, forte”, una base che ora “è venuta meno”. Eppure, “c’è qualcosa della nostra fede cristiana che forse può essere rimessa al centro”.
Il cardinale ha fatto riferimento alle forme di “apertura alla trascendenza”, anche espresse in forma estatica, che continuano a sopravvivere, pensiamo alla stessa attenzione per la natura; oppure, alla permanenza dell’esperienza del “donare”, che continua, per esempio, ad attrarre i giovani. Ma ci sono aperture di trascendenza anche “in un’angoscia profonda rispetto a un contesto deculturato e desocializzato”. Proprio “questo mondo iperscientifico e ipertecnico in cui vogliamo dominare tutto, lascia in molti un sentimento di ansia, di frustrazione, di rabbia e di disperazione”, che può sfociare anche in scelte politiche antisistema, ma può, al tempo stesso, essere intercettato.
Si apre, qui, una grossa sfida per la nostra pastorale: “ Ci aiuta a intercettare delle aperture alla trascendenza, che magari ci sono, ma avvengono in modo diverso da ciò che le nostre strutture pastorali vorrebbero o presuppongono?”. Per questo, ha proseguito Repole, “io credo che, anche da pastori, continuare a riflettere non è un lusso. È un compito. Così come continuare a pregare”.
Nell’ultima parte dell’intervento, l’arcivescovo ha invitato a riflettere “sul fattore ecclesiale”, sulla Chiesa in quanto tale: “In un contesto fortemente deculturato e desocializzato, noi dovremmo riprendere confidenza, mi sembra, con la portata di ciò che è inscritto nel nostro stesso essere Chiesa, e cioè che l’incontro con Dio avviene sempre nel simultaneo incontro con il fratello, che l’apertura alla relazione con Dio implica ipso facto un’apertura alla relazione con l’altro, che la salvezza ci raggiunge in forma comunitaria. Questo può costituire veramente qualcosa di antitetico e profetico, rispetto al mondo e alla cultura in cui siamo immersi”. La parola “comunità”, specie nei giovani, può ancora risuonare ed essere avvincente.
A tale questione si collega quella, oggi di grande attualità nella Chiesa, della sinodalità. Come la viviamo? “Per quel poco che ho capito, il riferimento dovrebbe essere la sinodalità dagli albori della Chiesa in avanti, cioè come quel sentirci in cammino insieme, con Cristo e verso lui, non a casaccio, che crea l’accordo come espressione della presenza di Cristo, vivo nello Spirito. Ma come è recepita, molto spesso, la sinodalità all’interno della Chiesa? Ognuno sente il diritto di poter esprimersi in quello che desidera, senza sentire simultaneamente il dovere di accogliere il desiderio dell’altro. Su questo, dobbiamo riflettere”. Una sinodalità correttamente intesa, davvero può essere “una grande profezia per il nostro mondo contemporaneo”.