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Editoriale: Più campanili che preti

Il problema è molto serio e, nel giro di pochi anni, anche da noi (come da tempo nel resto d’Europa) non si potranno più garantire tutti i numerosi servizi religiosi a cui la gente è abituata

17/02/2022

In Italia, il numero dei preti (circa 29.000 con una età media di 61 anni) si sta velocemente allineando con quello delle parrocchie (25.600). Molte di esse sono da tempo “accorpate” e seguite da un unico parroco, mentre i preti dediti a servizi particolari, come nell’insegnamento, nei Seminari e negli uffici diocesani, collaborano anche con qualche parrocchia. La tendenza è irreversibile e molto presto i campanili (o parrocchie) supereranno il numero dei preti. Basti pensare che quest’anno la nostra diocesi, che pur non manca di clero, dovrebbe avere una sola ordinazione presbiterale. Il problema è molto serio e, nel giro di pochi anni, anche da noi (come da tempo nel resto d’Europa) non si potranno più garantire tutti i numerosi servizi religiosi a cui la gente è abituata. Ci si dovrà concentrare necessariamente sulle cose essenziali e anche queste - pensiamo alla celebrazione dei sacramenti che molti considerano come un bene di consumo e, più in generale, all’evangelizzazione - dovranno subire importanti ridimensionamenti.

Il venir meno del popolo
Purtroppo, tale scenario deve essere integrato da un altro elemento critico, ossia che il popolo cala, in proporzione, più velocemente dei preti. Ne abbiamo avuto un chiaro riscontro durante questi due anni di pandemia: le chiese non si sono più riempite come prima. La crisi sociale e sanitaria ha anticipato di alcuni anni ciò che comunque tutti ci aspettavamo, ossia le chiese mezze vuote, il calo dei praticanti e l’aumento degli “indifferenti”.
Dunque, nonostante il reticolo parrocchiale, con la sua molteplicità ed esuberanza di iniziative (sempre più faticose da sostenere per i preti e i laici), sia ancora pressoché inalterato, la popolazione dei fedeli si sta riducendo notevolmente e nessuno si illude che ci sia un’inversione di tendenza.

Anzi, il sovraccarico di lavoro unito alla (comprensibile) incertezza di qualunque progetto o prospettiva pastorale, sta mettendo a dura prova la “tenuta” dei preti (e anche dei laici più impegnati) al punto che più di qualcuno è tentato di rifiutare un impegno da parroco che lo vincoli a più comunità. Anche perché, di fronte alla ridotta risposta della gente, pochi pastori sono disposti, pur di conservare la “clientela” e di evitare continue tensioni, ad abbassare il “prezzo” dell’offerta religiosa, adattandosi a ridisegnare il rito, la dottrina e la spiritualità, secondo le richieste e i gusti delle persone.

Quale pastorale?
E’ evidente che la missione della Chiesa dovrà essere ripensata profondamente, con un progetto lucido che guardi molto in avanti. Si tratterà di capire che cosa possiamo fare e dove pensiamo di andare. Per quello che mi pare di capire nessuno, neanche tra i più rinomati pastoralisti, riesce a offrire prospettive o proposte concrete. Molti si limitano a fare grandi e accattivanti letture della situazione, per concludere che bisogna, con “coraggio e fantasia”, “inventare” qualcosa di veramente nuovo e cercare una nuova identità per il cristianesimo. Unica cosa su cui tutti convengono è che, in una tale situazione di crisi, è necessario fuggire dalla tentazione di poter risolvere il problema della fede riproponendo o rispolverando quelle forme religiose tradizionali che erano congeniali a un mondo e a una cultura che sono ormai scomparsi.
Da parte sua il magistero, da qualche tempo, sollecita le comunità ecclesiali ad avviare un vero rinnovamento attraverso una conversione pastorale sulla linea della missionarietà. Le realizzazioni o nuovi modelli che affiorano qua e là sono, però, molto poche e legate più che altro al genio di qualche prete e difficilmente “esportabili”. Certamente ci vuole pazienza, ma anche tanta determinazione e coraggio.

Andare sempre oltre
L’unico percorso “innovativo” potrebbe essere quello indicato da papa Francesco, ossia di intraprendere un lungo cammino sinodale “dal basso all’alto”, al fine di generare una Chiesa forgiata da una sinodalità “in uscita”, secondo la dinamica dell’esodo e del dono e, quindi, capace di camminare e seminare sempre di nuovo e sempre oltre. In Evangelii gaudium 21 scrive: “Il Signore dice: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,38). Quando la semente è stata seminata in un luogo, Gesù non si trattiene più là per spiegare meglio o per fare segni ulteriori, bensì lo Spirito lo conduce a partire verso altri villaggi”. Per papa Francesco si tratta, dunque, di edificare una Chiesa sinodale e tutta missionaria, tutt’altro che autoreferenziale, con il sogno di arrivare a tutti (EG 31) ma, anche, come indica in Laudato si’ e Fratelli tutti, che sia a servizio della società e della cura per la casa comune.
Questo desiderio, però, dovrà nei prossimi anni fare i conti con il rapido e costante mutamento (spesso involutivo) del quadro culturale, che può vanificare ogni progetto e buon proposito e costringere, in presenza di ulteriori contrazioni del clero e dei fedeli, e all’aumento dell’indifferenza, a ripensare nuovi modelli pastorali e, soprattutto, un nuovo volto di Chiesa.

Questo a dire che niente può essere ritenuto risolutivo o “vincente” e che, pertanto, la Chiesa deve accettare di essere sempre in ricerca e in movimento, pronta, se necessario, a cambiare progetti e modelli pastorali. L’essenziale è non stancarsi di annunciare il Vangelo del Regno, con sapienza e intelligenza, continuando a gettare la semente con abbondanza e tanta generosità, in cammino con gli uomini e le donne di oggi.

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