La settimana scorsa abbiamo pubblicato una presentazione della lettera apostolica di papa Leone sull’educazione:...
Donne e disabilità: quando la violenza è duplice
Tra le forme di violenza e discriminazione, quella di genere è senz’altro quella più estesa, perché riguarda circa il 51% della popolazione mondiale. Ma cosa succede quando una persona viene discriminata o resa oggetto di violenza anche su altri piani? Michela Murgia lo aveva spiegato molto bene: battersi contro le disuguaglianze di genere implica lottare contro il sistema delle disuguaglianze, che affonda le radici in razzismo, classismo e abilismo, perciò “Nel momento in cui denuncio il mio dislivello di potere rispetto al maschio, devo riconoscere il mio privilegio rispetto a una donna come me, ma non bianca e non ricca”. Il convegno tenutosi all’auditorium di Santa Caterina lo scorso 24 novembre, organizzato da Una casa per l’uomo, ha aperto molti occhi sulla discriminazione multipla (o intersezionale) che colpisce le donne con disabilità. La mancanza di dati disaggregati sul tema ci impedisce di avere una dimensione chiara del fenomeno, ma la letteratura internazionale è concorde nell’identificare un aumento del rischio di esposizione alla violenza fino a cinque volte per le donne con disabilità, rispetto alle altre donne.
Il riconoscimento della violenza
Non è sempre facile per le donne con disabilità riconoscere di essere vittime di violenza. Valeria Alpi, giornalista, fa un esempio su di sé: “Quando c’è sempre qualcun altro che si occupa di te e del tuo corpo, che conosce il tuo corpo meglio di te, come fai a riconoscere una violenza subita?”. Le professioniste e i professionisti si sono fatti portavoce di molte storie di persone raggirate e costrette non solo a rapporti sessuali, ma anche a pratiche mediche e persino all’aborto. La violenza, però, è quotidiana, e ha contorni economici (la mancanza di un lavoro e di conseguenza la totale dipendenza dai caregiver), psicologici, verbali (donne che si sentono ripetere “tu non sai fare niente, non servi a niente” ecc), e fisici (donne con disabilità motoria a cui si tolgono strumenti che le rendono indipendenti, a cui si ostacola il movimento, ecc). A causa delle ancora numerose barriere architettoniche, le donne con disabilità fisiche non possono partecipare a un convegno sulla violenza sulle donne e non possono fare una mammografia, o non possono decidere come vestirsi e pettinarsi; le donne cieche non hanno modo di riconoscersi in video sessualmente espliciti diffusi senza consenso, le donne sordomute non possono riconoscere un insulto e difendersi verbalmente; chi ha difficoltà cognitive è molto più facilmente raggirata. Le donne con disabilità sono trattate da eterne bambine, si fatica a voler dare loro un lavoro, non si riconosce loro il bisogno all’affettività e alla sessualità. Non è sempre facile per queste donne capire di essere vittime di violenza, così come, purtroppo, non è sempre facile capirlo per tutte le donne: questo anche perché manca una cultura e un’educazione all’amore e all’affettività.
La richiesta di aiuto
Numeri rapidi, gesti con le mani, protocolli in pronto soccorso, reti di amicizie: sono alcuni degli strumenti con cui una donna vittima di violenza può chiedere aiuto, e sappiamo non essere ancora abbastanza. Aggiungendo l’ostacolo della disabilità, il dramma è maggiore: le donne sordomute non possono chiamare il 1522 e se arrivano in un centro antiviolenza (cav) difficilmente troveranno qualcuno che dialoghi con loro in Lis, così come le operatrici difficilmente sapranno rapportarsi a donne con sindrome di Down; se hanno disabilità cognitive, si può dubitare della loro richiesta di aiuto e del racconto della violenza subita; le donne con disabilità fisiche spesso non riescono nemmeno a raggiungere i cav. Le soluzioni stanno senz’altro in un aumento dei fondi, ma anche nella formazione del personale e nel lavoro di rete con i servizi sociali e le altre associazioni; è necessario lavorare sull’intersezionalità, per dare una risposta concreta a tutte le donne vittime di violenza. Poiché esistono strumenti specifici per specifiche necessità, bisogna essere consapevoli degli spazi e dei tempi necessari per accogliere donne con disabilità. La dottoressa Alberta Giomo, direttrice dell’Uoc Disabilità e non autosufficienza dell’Ulss 2, aggiunge, infine, una domanda importante su cui interrogarsi: “Da operatore o operatrice, sono una barriera o un facilitatore?”.
L’iter processuale
Quando la violenza è riconosciuta e segnalata, si apre (o dovrebbe aprire) un iter processuale, all’interno del quale non mancano le criticità. Le racconta Stefano Mazzanti, comandante del reparto operativo di Treviso: “Non siamo ancora pienamente organizzati per affrontare questo tema”, si dice costretto ad ammettere, però individua dei piccoli passi avanti da compiere. “Le donne che subiscono violenza di genere spesso vivono una forte asimmetria rispetto a chi commette il reato (isolamento, dipendenza emotiva ed economica, timore di non essere credute, terrore di ritorsione); nel processo, l’asimmetria si rende ancora più forte”, spiega, a causa di barriere comunicative, relazionali e di fiducia, fisiche e sensoriali dell’ambiente e rischio di marginalizzazione della testimonianza. Il tema del “giusto processo” si concentra ancora troppo sull’autore della violenza, mentre il sistema processuale dovrebbe prevedere effettive modalità per ascoltare, proteggere e valorizzare la vittima, che altrimenti resta silente. Se donna e disabile, insomma, spesso la vittima viene dimenticata. Anche in questo caso, gli strumenti ci sarebbero: prevedere ambienti protetti, stanze adeguate e non intimidatorie, personale formato su questi temi, sistemi audio e testi in braille, brochure in linguaggi semplici su come ottenere supporto e cosa aspettarsi dall’iter processuale. Misure operative concrete, dunque, per evitare una vittimizzazione secondaria.



