Sentiamo anche il dovere di segnalare la difficile e a volte critica situazione in cui versa oggi nel...
Giubileo dei detenuti in casa circondariale: non lasciamoli soli





Un pomeriggio intenso, quello vissuto in casa circondariale a Treviso da persone detenute, familiari, agenti, personale amministrativo, volontari, educatori, religiosi, rappresentati della Chiesa locale e delle istituzioni, insieme per celebrare il Giubileo dei detenuti, guidati dal vescovo di Treviso, mons. Michele Tomasi.
L’appuntamento di domenica 19 ottobre è stato il punto di arrivo di un percorso, iniziato con l’invio, da parte delle persone detenute, di una lettera ai fedeli della diocesi, a cui aveva risposto il Vescovo. Allo stesso modo, la cerimonia rappresenta anche un punto di partenza per lavorare insieme e non lasciare solo chi si trova in carcere.
Credere negli esseri umani
“Il cielo è lo stesso, di qua e di là di queste mura. Manteniamo la nostra umanità, abbattiamo i muri dell’indifferenza! E voi, fratelli, non perdete la speranza e la fiducia nell’umanità”, le parole del vescovo Tomasi, rivolte ai presenti, tra cui i volontari che partecipano a percorsi e progetti nella Casa circondariale, in particolare “La prima pietra” e, poi, del Sicomoro di Varago, operatori dell’Alternativa, il gruppo “Il nodo” di Vittorio Veneto, rappresentanti di organismi diocesani come il Consiglio pastorale e il Consiglio presbiterale, i giovani delle parrocchie che partecipano al percorso “Parole in libertà”, i cappellani della casa circondariale, don Pietro Zardo, e dell’Istituto penale minorile, don Otello Bisetto, la Caritas diocesana, con il direttore, don Bruno Baratto, e altri operatori, e tutte le persone, laici, laiche, consacrate che compongono la cappellania del carcere. È intervenuta anche la direttrice dell’Ipm, Barbara Fontana. Insieme al vescovo, anche il vicario generale, mons. Mauro Motterlini, e il vicario per le Collaborazioni pastorali, don Antonio Mensi, oltre al sindaco della città, Mario Conte, e Domenico Demaio, vicario del Questore di Treviso. Ad aprire le porte a tutti, il direttore della casa, Alberto Quagliotto, insieme alla Polizia penitenziaria e a tutto il personale. La musica ha accompagnato il percorso, a partire da quel “Credo negli esseri umani” che ha infuso fiducia e speranza nei cuori dei partecipanti.
Tre porte
Tre le porte aperte durante il cammino, che si snodava tra le mura del carcere, fino al cuore del campo sportivo. Porte come quelle che varcano i detenuti quando entrano in casa circondariale, durante la permanenza e quando devono uscire a fine pena. Porte che mutano significato in base al percorso di ognuno, e che, grazie alle buone relazioni, diventano pian piano meno paurose e si riempiono di speranza. Le tre tappe sono state accompagnate dalle toccanti testimonianze dei detenuti.
L’ingresso in carcere
La prima, quella che, per chi entra per scontare una pena, “si chiude alle spalle e ti lascia una sensazione di nausea, di freddo. Si è spenta ogni luce, tutto è oscuro. Quella stessa porta che si chiude dietro alle nostre spalle, si chiude anche davanti alle nostre famiglie, ai nostri affetti, al nostro futuro, alla società. Separa persone, sentimenti e speranze”. Smarrimento, rabbia, confusione, quasi un senso di terrore sono le sensazioni che accompagnano l’ingresso in casa circondariale: “All’inizio, la mattina ti svegli e cominci a pensare che la tua vita sia finita qui”. “Entri in un tempo diverso, che scorre lento, un tempo riempito dal chiasso della struttura e del sovraffollamento, che ti toglie lo spazio di riflessione”.
La via della relazione
Il tragitto tra la prima e la seconda porta si è trasformato nell’occasione per intrecciare le diverse umanità, con le persone detenute che si sono unite al piccolo corteo, testimoniando il valore delle relazioni: “In questa infinita solitudine che ci separa dal mondo, e nonostante tutto, anche qui gli incontri possono fare la differenza”.
“Grazie ad alcuni incontri - il racconto di una seconda persona -, cominci a guardati intorno in maniera diversa. Impari ad accogliere piccoli gesti di solidarietà, a prenderti cura di chi «non ha preso bene la carcerazione». Anche solo un saluto o un sorriso qui contano moltissimo. Sono gli incontri tra queste due porte (tra il dentro e il fuori, ndr) che mettono in moto il cammino”. Simbolicamente, la seconda porta, ha voluto rappresentare, dunque, la vita all’interno del carcere.
Il ritorno al “mondo di fuori”
La terza è la porta che si chiuderà alle spalle il giorno dell’uscita, e si aprirà sul futuro, dopo aver concluso la pena, per un ritorno “nel mondo fuori” dove le porte chiuse non mancheranno. “Le vere porte chiuse che dovrai ancora affrontare non sono quelle di qui dentro, quelle che segnano tutti i giorni della tua detenzione. La vera sfida sarà quella porta che si chiuderà alle tue spalle il giorno dell’uscita, dopo aver concluso la pena. Molti di noi sanno che là fuori il mondo cambia e che, ad aspettarci, ci saranno ancora molte porte chiuse, perciò per molti la mancanza di ogni possibilità essenziale per ricominciare una vita, diventa una preoccupazione che appesantisce ancora di più questo tempo”.
“Per poter attraversare questa ultima porta - le parole di un altro detenuto - abbiamo bisogno di non essere lasciati soli, di essere riconosciuti, di essere accompagnati nella ricostruzione. Per molti di noi le opportunità sono difficili anche solo da immaginare, quando si esce soli con il sacco in mano, spesso senza più un posto dove andare, senza la presenza di qualcuno capace di riconoscere la nostra voce”. Ed ecco, in risposta, l’appello del Vescovo a “mantenere la nostra umanità, soprattutto nell’accogliere chi esce, nel dare una nuova possibilità, nuovi spazi, ad aprire le braccia perché nessuno possa sentirsi abbandonato e non perda la speranza”.
Cerimonia nel cuore della struttura
Aperta la terza porta, tutti si sono ritrovati nel campo sportivo, cuore della casa circondariale, dove sono intervenuti, oltre al vescovo e al direttore del carcere, anche tanti operatori e persone detenute, che hanno ricordato commossi Angelo Rigo, volontario mancato poche settimane fa, che entrava in carcere ogni sabato per un momento di catechesi. Di grande impatto anche il racconto di una persona condannata all’ergastolo, che ha condiviso il proprio percorso di violenza, di errori, ma anche di perdono e rinascita.
Gratitudine per l’iniziativa e per la grande presenza è stata espressa dal direttore Quagliotto, che ha reso omaggio al servizio quasi trentennale di don Pietro Zardo e al suo impegno per costruire il momento giubilare. Il direttore ha parlato della realtà del carcere come di “un pezzo della città, che va conosciuto e compreso, entrando, ascoltando, vedendo” e ha invitato, annunciando il termine del proprio mandato, ad “avere fiducia nella possibilità di cambiamento dell’uomo” ed esortato la società tutta ad adoperarsi per “fornire gli strumenti affinché questo luogo sia di passaggio”.