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Striscia di Gaza: un dramma senza fine

Riteniamo, tuttavia, che sia ancora possibile, con l’impegno della comunità internazionale, con il dialogo e la diplomazia, trovare un percorso di pace e di riconciliazione
28/08/2025

La situazione dei palestinesi nella striscia di Gaza (ma anche in Cisgiordania), è sempre più drammatica e ormai Israele ha deciso di occupare Gaza city per debellare definitivamente l’organizzazione politica militare palestinese denominata “Hamas” (il cui obiettivo dichiarato è la distruzione di Israele e l’istituzione di uno stato islamico in Palestina). La violenta reazione di Israele è scaturita dopo il 7 ottobre 2023, allorché i miliziani di Hamas, in una sortita terroristica, hanno ucciso circa 1.200 persone e rapite altre 250, tra civili e militari. Da allora Israele ha scatenato un finimondo, del quale stanno facendo le spese tante persone innocenti (si parla di oltre 60.000 morti per i bombardamenti, la fame e le malattie). Oggi, purtroppo, a Gaza siamo di fronte a una vera e propria catastrofe umanitaria, nei confronti della quale il mondo sembra impotente.

Le divisioni palestinesi

Sappiamo che nel 2012 l’Onu ha riconosciuto formalmente lo “Stato di Palestina”, comprendente oltre la Cisgiordania anche la Striscia di Gaza, come entità statale “semiautonoma” guidata dall’Anp (“Autorità nazionale palestinese”, una specie di “filiale” dell’Olp o “Organizzazione per la liberazione della Palestina”), attualmente presieduta, dopo la morte di Yasser Arafat nel 2004, da Abu Mazen.

Gli equilibri, già molto precari, si sono però spezzati allorquando, nel 2007, “Hamas”, vinte le elezioni contro la fazione moderata “al-Fatah”, e dopo averla sconfitta anche sul piano militare, si è insediato nel governo della Striscia di Gaza. La spaccatura del fronte palestinese ha portato, però, soprattutto per opera di Hamas, all’inasprimento del conflitto con Israele.

Uno scontro inevitabile

Purtroppo la drammatica situazione dei due milioni di palestinesi asserragliati nella Striscia di Gaza e sottoposti al fuoco continuo delle forze di difesa israeliane (Idf), sta suscitando nel mondo proteste e un certo rigurgito di antisemitismo. A questo occorre aggiungere anche la politica del Governo di Benjamin Netanyahu, orientata a favorire gli insediamenti dei coloni ebrei nei territori palestinesi della Cisgiordania. Per di più, il progetto, sostenuto soprattutto dai “falchi” del Governo, (in particolare da Ben Gvir, uno degli individui più reazionari e fanatici), di attuare l’insediamento denominato “E1” (previsto fin dagli anni ’90, ma bloccato nel 2012 per le proteste di molti Paesi), con la costruzione di oltre 3.000 unità abitative, verrebbe a dividere in due il territorio della Cisgiordania, così da impedire definitivamente l’attuarsi della “soluzione dei due Stati” (per altro riconosciuti già da tempo dalla Santa Sede), sostenuta dalla comunità internazionale, ossia la possibilità di una futura convivenza fra Israele e Palestina.

I problemi interni a Israele

Possiamo anche comprendere la necessità di Israele di sentirsi al sicuro dalle minacce esterne e “interne”. Tuttavia, fare guerra a tutti non gli farà accrescere certo il consenso internazionale. Una politica e una strategia, quelle portate avanti dal Governo Netanyahu ignorando gli appelli che arrivano da ogni parte del mondo, che alla fine non gioveranno molto né a lui né al Paese. Prova ne sia che dalle ultime rilevazioni, sembra che il 62% degli ebrei non abbia più fiducia nel loro Premier. Bisognerà, però, non tirare conclusioni affrettate. Se la maggioranza degli ebrei è contro il Governo, tuttavia, condivide in pieno gli obiettivi che esso sta inseguendo: l’eliminazione definitiva di Hamas, gli insediamenti in Cisgiordania, l’occupazione di Gaza, la contrarietà a due Stati, la sicurezza militare con i Paesi confinanti.

Una soluzione impossibile?

Purtroppo, la situazione dei palestinesi rimane complessa ed è sempre più difficile trovare una soluzione. La comunità internazionale, al di là delle dichiarazioni di principio (due popoli, due Stati) sembra, per motivi politici, ideologici e pratici, impotente nel convincere (ma anche nell’imporre) i contendenti ad avviarsi verso una soluzione che garantisca sicurezza e possibilità di vita per entrambi i popoli.

D’altra parte, gli Stati Uniti, ora guidati da Donald Trump, hanno una posizione assai ambigua e chiaramente filo israeliana. In questo, è certamente determinante la forte presenza nel Paese della comunità ebraica, la quale ha condizionato da sempre, sia politicamente che economicamente, la politica arabo-israeliana delle varie Amministrazioni che si sono succedute negli Usa.

Ambiguità che si riscontra pure nei principali Paesi arabi, in particolare tra le Monarchie del Golfo, che, per ragioni strategiche e di consenso interno, sentono i “fratelli” palestinesi come una spina nel fianco, un problema sul quale nessuno di loro vuole impegnarsi o compromettersi.

L’Europa, poi, divisa com’è e incapace di esprimere una politica estera unitaria, finisce per essere irrilevante, sia nei confronti del problema palestinese che della guerra russo-ucraina. Giustamente, Mario Draghi, al recente meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, se ne è uscito dicendo che “la Ue è marginale da Gaza a Kiev” e che, ormai, è “evaporata l’illusione di un’Europa che conta”.

Tra rassegnazione e speranza

Purtroppo, a tutt’oggi nessuno vuole o e in grado veramente di risolvere il problema palestinese. Emblematiche e sconcertanti rimangono, in proposito, le parole proferite dal cancelliere tedesco Friedrich Merz riguardo alla situazione in cui versa la Striscia di Gaza: “Questo è il lavoro sporco che Israele sta facendo per tutti noi”.

Noi, certamente, non la pensiamo affatto così. Riteniamo, anzi, che sia ancora possibile, con l’impegno della comunità internazionale, con il dialogo e la diplomazia, trovare un percorso di pace e di riconciliazione. Anche noi, con papa Leone seguiamo “con molta preoccupazione la gravissima situazione umanitaria a Gaza dove la popolazione civile è schiacciata dalla fame e continua a essere esposta a violenze e morte”, e continuiamo a pregare, chiedendo a Dio il dono della pace, come abbiamo fatto in tutto il mondo venerdì 22 agosto, proprio su invito del Santo Padre.

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