La morte ha la forza di farci riconsiderare le priorità della vita e, forse, di dare loro un po’ di ordine....
Francia, la “laicità” colpisce ancora con il divieto dell’abaya
Il ministro francese dell’Istruzione, Gabriel Attal, in vista della riapertura delle scuole pubbliche di Francia, ha inviato a fine agosto una lettera ai dirigenti scolastici in cui ricorda il valore della laicità della scuola, sottolineando il divieto di indossare in classe l’abaya, l’abito lungo che copre interamente il corpo, molto diffuso tra le donne del Medio Oriente e sempre più usato da tante giovani musulmane francesi, e il qamis, corrispettivo maschile. Ultimo provvedimento di una lunga serie di norme che il Parlamento ha introdotto in nome della laicità dello Stato, dopo aver vietato lo scorso anno l’hijab nelle competizioni atletiche del Paese.
Il fondamentalismo laico
Dal marzo 2004 in Francia è in vigore infatti la cosiddetta “legge sulla laicità nelle scuole”, fortemente voluta dall’allora presidente Jacques Chirac. La legge vieta l’ostentazione di simboli e abiti religiosi nelle scuole. E dice: “E’ vietato nelle scuole primarie e secondarie (“écoles, collèges e lycées publics”, quindi le scuole che vanno dai 6 ai 18 anni, ndr) indossare simboli o indumenti che ostentino l’appartenenza religiosa”. A nominare qualcuno di questi simboli e indumenti è una circolare applicativa della legge: parla di simboli e indumenti che comportano «un immediato riconoscimento della propria appartenenza religiosa come il velo islamico, qualunque nome gli venga dato, la kippah o una croce di dimensioni eccessive”. La legge precisa che la sua applicazione riguarda tutte le religioni e dice anche che «non pregiudica il diritto degli studenti a indossare simboli religiosi discreti».
Per ridurre gli spazi interpretativi della legge del 2004 il ministro Attal - anche nella corsa per le europee di Macron per catalizzare i voti di destra - ha emanato il 16 agosto 2023 un decreto che prevede l’avvio di un procedimento disciplinare da parte del dirigente dell’istituto “quando lo studente commette un atto che viola gravemente i principi della Repubblica, in particolare il principio di laicità”. Tale decreto segue la circolare del 9 novembre 2022 sugli abiti non conformi alla legge del 2004. Ora si tratta di capire se l’ayaba è o non è un simbolo religioso. Per molte ragazze che la indossano è, infatti, solo un abito alla moda, non legato al culto musulmano ma importato dalla cultura di molti Paesi soprattutto dell’area del Golfo in particolare da Dubai.
Una questione aperta
La questione della laicità della scuola non è una peculiarità solo francese, anche perché periodicamente anche nel nostro Paese si riaccende il dibattito e vengono depositate proposte di legge per l’obbligo di esposizione in tutte le scuole, oltre che negli uffici della pubblica amministrazione, dopo che alcuni ricorsi e sentenze hanno portato ad una sorta di libertà di scelta delle singole comunità scolastiche. E’ indubbio però che la Francia sia particolarmente sensibile non solo per l’alta componente demografica musulmana (oltre il 10% della popolazione) ma anche per le peculiarità della cultura repubblicana per cui non sono concepite comunità intermedie tra lo stato e il popolo.
Giovani immigrati senza identità
Eppure anche all’inizio della scorsa estate forti erano state le tensioni nelle banlieue francesi, con scintille sino in Belgio e persino in Svizzera, conseguenza del rapporto irrisolto tra islam e modernità europea. Da una parte ci sono i giovani di fede islamica, di seconda e terza generazione, che non si riconoscono nei valori della società laica e si sentono emarginati, dall’altra parte la mancanza di politiche sociali nelle periferie ha alimentato una miscela identitaria e culturale esplosiva repressa dallo stato con l’intervento duro delle forze dell’ordine non formate alla mediazione sociale, ma alla repressione. Una polizia peraltro apprezzata nel suo ruolo violento da una massiccia minoranza silenziosa di francesi che si sentono minacciati.
Non solo Parigi!
Questa notizia di cronaca riapre un dibattito ma soprattutto invita ad approfondire il significato di alcuni indumenti femminili come il velo presente nelle religioni abramitiche ma che ha dietro di sé una lunga storia. L’usanza di coprire la testa è presente da tempi antichissimi in tutta l’area del Mediterraneo, in India e in molte zone dell’Asia. Nei secoli molto è cambiato e oggi il ‘capo velato’ non ha più il significato esclusivo di un tempo, quello di sottomissione, minorità della donna rispetto all’uomo. Anche se complesso ancora oggi è l’uso del velo nel mondo islamico: proprio per la disobbedienza alla direttiva di coprire il capo, un anno fa Mahsa Amini è morta in carcere e le donne iraniane hanno dato inizio ad una ondata di dimostrazioni antigovernative in molte città dell’Iran.
Di fronte a queste scelte dei cugini d’oltralpe viene spontaneo chiedersi dove sono finite le famose Liberté, Égalité, Fraternité?