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La democrazia rappresentativa è in crisi

Da qualche anno, e non solo in Italia, si discute molto della crisi, ormai endemica, della democrazia rappresentativa a motivo, soprattutto, dei partiti che, chiusi sempre più negli affari e nelle beghe di Palazzo, sono distanti dai cittadini che dovrebbero, invece, non solo rappresentare, ma anche coinvolgere e ascoltare. Va riconosciuto, comunque, che il consenso che riescono a raccogliere i vari movimenti, autonomi dai tradizionali partiti, mette in evidenza il desiderio e il bisogno dei cittadini di sentirsi effettivamente inclusi in una democrazia compiuta, rappresentativa e partecipativa, capace di valorizzare i corpi intermedi e rispettare il principio di sussidiarietà.

09/01/2020

Da qualche anno, e non solo in Italia, si discute molto della crisi, ormai endemica, della democrazia rappresentativa a motivo, soprattutto, dei partiti che, chiusi sempre più negli affari e nelle beghe di Palazzo, sono distanti dai cittadini che dovrebbero, invece, non solo rappresentare, ma anche coinvolgere e ascoltare.

Il popolo elegge democraticamente i suoi rappresentanti, ma sempre meno liberamente perché, di fatto, le liste sono blindate dai partiti, oppure perché i candidati dispongono del sostegno dei poteri forti o di grandi ricchezze da investire nella propria campagna elettorale.

Ne esce, così, una classe politica, sempre più “casta”, alla quale i cittadini addebitano l’incapacità di affrontare i grandi problemi economici, sociali e ambientali, per lo più conseguenza della globalizzazione; quelli, soprattutto, del lavoro, dell’immigrazione e della giustizia sociale. Da noi, come anche in altri Paesi dell’Europa, si aggiunge inoltre l’instabilità delle maggioranze parlamentari con frequenti cambi di “casacca” da parte degli eletti e la conseguente fragilità e immobilità dei Governi di fronte ai problemi cruciali del Paese e alle politiche europee.

Questo ha portato alla progressiva disaffezione della gente verso la politica e alcune istituzioni democratiche, con il crescente astensionismo elettorale e il sorgere di spinte populiste e sovraniste. Lo storico Marco Revelli scrive che ogni qualvolta il popolo o una parte di esso non si sente rappresentato, ritorna un qualche tipo di reazione a cui si dà il nome di populismo e che, con l’estenuazione dei processi democratici, si inseriscono nel cuore delle democrazie mature forze oligarchiche e autoritarie, spesso supportate da dispendiosi apparati mediatici e propagandistici, che tradiscono di fatto il mandato di un popolo “sovrano” rimasto ormai “senza scettro”. La sindrome populista può essere ritenuta come il prodotto di un deficit di rappresentanza democratica.

 

Reazione dei movimenti nelle piazze

La reazione a questa marginalizzazione di ampie fasce di cittadini sfocia inevitabilmente nell’antipolitica e nell’antisistema e, a volte, nella risposta delle piazze. Ne abbiamo avuto un clamoroso esempio con il vasto consenso che il movimento “anti casta” Cinque Stelle è riuscito a intercettare nelle elezioni politiche del 2017, dimezzatosi però, appena un anno dopo, alle elezioni Europee. L’essere improvvisamente catapultato nelle stanze del potere e a causa, forse, di una carente e realistica progettualità e collocazione politica (né di destra, né di sinistra), ha trascinato il movimento, in breve tempo, in una profonda crisi di identità e in un progressivo processo di dissolvimento che, né il suo leader Luigi Di Maio, né il padre fondatore Beppe Grillo, sembrano riuscire più a bloccare.

Vale la pena ricordare che già nel 2002, per difendere i principi di democrazia e legalità, era sorto anche il Movimento dei Girotondi, presto eclissatosi per mancanza di una struttura organizzativa e politica; e che negli anni 2012-2013, assai difficili per la crisi economica e politica italiana, si impose all’attenzione quel movimento radicale di protesta e antisistema (purtroppo con qualche deriva squadrista) detto dei “Forconi”, che raggruppava agricoltori, pastori e allevatori, autotrasportatori, anch’esso esauritosi però ben presto. E l’anno scorso abbiamo visto esplodere pure il Fridays for Future, il grande movimento studentesco nato in risposta all’attivismo di Greta Thunberg in difesa del clima e dell’ecosistema.

 

Quale futuro per le Sardine?

Per ultimo e per certi versi più interessante, è il movimento politicamente “progressista” delle Sardine sorto, infatti, per sottrarre a Salvini il monopolio della piazza e per manifestare contro ogni sovranismo e populismo e a favore dell’integrazione.

Come per gli altri movimenti, anche questo deve già affrontare il problema della gestione e della organizzazione di un così vasto e ormai eterogeneo consenso; della chiarezza di linea politica e del rapporto con i partiti, sempre più affamati di quelle piazze che non riescono più a riempire.

Senza un progetto politico definito e una adeguata struttura organizzativa democratica (non solo carismatica), di sicuro scomparirà in breve tempo. Infatti, ogni idea o progetto per potersi attuare richiede che qualcuno si metta in gioco scendendo nell’agone politico, per entrare nelle istituzioni nelle quali si elaborano e si decidono le scelte pratiche di cui il Paese ha bisogno.

 

Un processo inarrestabile

Ad ogni modo, anche se tale movimento come altri dovesse dissolversi, poco dopo, di sicuro, ne spunterà un altro, perché i movimenti, come annota il filosofo Massimo Cacciari, sono come i fiumi carsici che scompaiono per riaffiorare da un’altra parte. Va riconosciuto, comunque, che il consenso che riescono a raccogliere i vari movimenti, autonomi dai tradizionali partiti, mette in evidenza il desiderio e il bisogno dei cittadini di sentirsi effettivamente inclusi in una democrazia compiuta, rappresentativa e partecipativa, capace di valorizzare i corpi intermedi e rispettare il principio di sussidiarietà.

Criticarli stizziti, peggio ancora irriderli con saccenza, è segno di debolezza culturale e di paura verso il nuovo che, grazie alle giovani generazioni, irrompe scuotendo il sistema.

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