Indubbiamente, quello che ci appare nel racconto è un Gesù umano, compassionevole e misericordioso verso...
Editoriale: L’elezione di Leone XIV è segno di unità e universalità

Penso che molti, come me, siano rimasti inizialmente un po’ sorpresi dalla elezione al pontificato del cardinale statunitense Robert Francis Prevost. Non pensavo che i cardinali potessero abbattere quel muro che da secoli impediva, per opportunità ecclesiale o per motivi geopolitici, di scegliere come Papa un cardinale proveniente da una superpotenza mondiale, come sono gli Stati Uniti d’America, ancor più in questi tempi nei quali sta imperversando nel mondo, con arroganza ed esibizioni muscolari, il suo presidente, Donald Trump. Forse, senza volerlo esplicitamente, e senza particolari alchimie elettorali, i porporati hanno saputo offrire al mondo un altro volto dell’America e dire che la Chiesa è davvero universale e non ha remore verso alcun Paese. Di sicuro, la loro è stata una scelta ecclesiale e pastorale.
Un pastore multiculturale
La sorpresa, però, si è dissolta quando ho letto il ricco curriculum di questo nuovo Papa: religioso agostiniano, con studi e insegnamento in matematica, filosofia e diritto canonico ma, soprattutto, un missionario che ha svolto quasi vent’anni di ministero in Perù, per essere, poi, superiore generale del suo Ordine, quindi ancora in Perù come vescovo e, infine, prefetto del Dicastero dei vescovi.
Un pastore, quindi, culturalmente preparato, vero missionario e, certamente, con una mentalità e una apertura universali. Anche per questo viene ritenuto il meno nordamericano tra i cardinali Usa, ma, piuttosto, più un latinoamericano che porta, però, dentro di sé i tratti peculiari di Chicago, sua città natale, caratterizzata dal ruolo cruciale delle migrazioni, con la conseguente presenza di forti disuguaglianze sociali; città di transito e insediamento per diverse comunità etniche, che hanno dato vita a un mosaico culturale unico. Forse, la metropoli che riflette più di altre la complessità della società americana, con la sua storia di migrazione, la sua rilevanza accademico-culturale, le sfide sociali che la attraversano e il suo ruolo centrale nell’economia e nella cultura statunitense.
Segno di unità
Al mondo, che dalla morte di papa Francesco aveva gli occhi puntati sul Vaticano, i cardinali hanno dato un segno di grande unità e di sollecitudine per il bene della Chiesa. I 133 elettori, provenienti da ben 71 Paesi di cinque Continenti, dopo la terza votazione, come ha detto un cardinale, si sono sentiti spinti o trascinati quasi in modo impetuoso, verso il card. Prevost e lo hanno eletto al quarto scrutinio. Hanno dato, così, alla Chiesa e al mondo, un segno inequivocabile di grande unità, seppur nella diversità di culture, visioni teologiche ed ecclesiali, sensibilità e, persino, le comprensibili simpatie e preferenze che ognuno di loro poteva avere. Chi si aspettava e, forse, sperava in una divisione lacerante tra i cardinali, con una lotta tra ipotetiche “cordate” formate da “curiali”, “bergogliani e progressisti”, “conservatori” e “moderati”, ha dovuto ben presto ricredersi, perché la Chiesa, pur servendosi per le scelte importanti degli strumenti tipici delle democrazie liberali (le votazioni), tuttavia, non è animata da spirito di divisione (opera del maligno) o di supremazia di un gruppo su un altro, per assicurarsi un pezzo di potere, ma dalla ricerca dell’unità e della comunione, perché questo è il comando che il Signore Gesù ha dato ai suoi prima di morire: “Che siano una cosa sola, affinché il mondo creda” (Gv 17,21). Forse, come ha detto qualche cardinale, quell’affresco del Giudizio universale di Michelangelo che, nella cappella Sistina, li sovrastava, ricordava loro che dovevano temere più il giudizio di Dio che quello degli uomini e cercare e operare sempre per il bene e l’unità della Chiesa.
Universalità nella carità
Questa elezione deve anche farci riflettere sul carattere universale della nostra Chiesa e, quindi, di ogni cattolico. In un mondo diviso da guerre ed egoismi, segnato dal riaffiorare di incalzanti rigurgiti nazionalistici e chiusure verso “gli altri” (“prima i nostri”), la Chiesa cattolica va davvero, forse unica istituzione, in senso contrario: diffusa in tutto il mondo, magari costituita da piccoli greggi (come ad esempio quello della Mongolia, con 1.400 cattolici), riesce a trovare e vivere l’unità nella diversità, ad accogliere tutti e andare verso tutti senza alcuna discriminazione e senza eccezioni, in particolare verso coloro che soffrono e invocano, oltre al pane, una parola di speranza, di conforto e di giustizia. I poveri e i diseredati hanno per la Chiesa di Cristo un posto privilegiato, qualunque sia la loro situazione e provenienza. Tanto che al cattolico vicepresidente Usa, Jd Vance, che, per giustificare le “deportazioni” di migranti del suo Governo affermava che per un cristiano prima si ama la propria famiglia, poi il prossimo, poi la propria comunità, poi i propri concittadini e, infine, il resto del mondo, il card. Prevost rispondeva che egli sbagliava, perché “Gesù non ci chiede di fare la classifica del nostro amore per gli altri”. O, come scriveva papa Francesco in quel frangente ai vescovi statunitensi, il vero “ordo amoris” si scopre nella parabola del “Buon samaritano” (Lc 10,25-37), “ovvero meditando sull’amore che costruisce una fratellanza aperta a tutti, senza eccezioni”.
È proprio vero che, come scrive san Paolo ai Galati, nella Chiesa “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). La stessa fede in Gesù risorto e il comune battesimo uniscono i cuori dei credenti e aprono all’universalità e all’uguaglianza fra tutti, in qualunque parte del mondo essi vivano. Per questo il vescovo di Roma e papa della Chiesa universale, può provenire anche da Paesi e luoghi lontani e impensabili.