Indubbiamente, quello che ci appare nel racconto è un Gesù umano, compassionevole e misericordioso verso...
Trevigiano dell'anno: Giovanni Putoto, in prima linea contro ebola
Secondo La Vita del popolo il medico, originario di Spresiano e attualmente responsabile programmazione del Cuamm, organizzazione di medici per l'Africa, merita questo "riconoscimento" simbolico per essersi recato in Sierra Leone ne momento in cui la terribile epidemia era al culmine. Ma il suo è un impegno a 360 gradi per il Continente nero. Una passione nata in parrocchia a Spresiano e nell'Azione cattolica. E iniziata quasi per caso grazie ad un camposcuola a Lorenzago...

Chissà se, mentre si trovava in Sierra Leone, a rischiare la vita nel cuore dell’emergenza ebola, il dottor Giovanni Putoto avrà ripensato a quell’estate di fine anni Settanta, quando durante un camposcuola dell’Azione cattolica, a Lorenzago, manifestò all’assistente, don Tiziano Ferronato, il desiderio di lavorare per l’Africa.
“Don Tiziano - ricorda ora - mi disse che a Padova esisteva il Cuamm, e lì iniziò l’avventura”. Una vicenda che ha portato Putoto da Spresiano, la sua parrocchia d’origine, a soddisfare la sua “doppia” vocazione: quella di aiutare l’Africa e quella di diventare medico. Anzi, afferma, “si può dire che prima sia venuta la vocazione per l’Africa e poi è seguita quella professionale”.
Attualmente Giovanni Putoto è responsabile programmazione di “Medici con l’Africa Cuamm”. E’ appena tornato da una missione in Sud Sudan. Ma solo qualche settimana prima non aveva esitato a recarsi in Sierra Leone, proprio nel momento peggiore dell’epidemia ebola, quando il Paese si trovava isolato dal mondo e le vittime dell’infezione non si contavano.
Un gesto di generosità, condiviso con tanti colleghi del Cuamm e di altre ong, che vale a nostro avviso al dottor Putoto il nostro riconoscimento di “trevigiano dell’anno”. Una valutazione che, mentre lo intervistiamo, non condividiamo con l’interessato, dalle cui risposte traspare che l’aiuto ai malati di ebola è solo un tassello di una vita spesa accanto agli ultimi.
Come è nato i suo amore per l’Africa?
Da bambino con la mia famiglia ho vissuto dentro all’oratorio di Spresiano. Spesso ospitavamo a cena i missionari del Pime. Crescendo, ho iniziato a fare servizio in Azione cattolica, frequentavo Casa Toniolo, i campi estivi. E durante uno di questi, a Lorenzago, mi venne indicata questa possibilità del Cuamm. Dopo la laurea, ho vissuto in Africa con mia moglie per dieci anni. Poi, mi sono trasferito con la famiglia - abbiamo quattro figli - a Padova ed ho lavorato alla direzione sanitaria dell’ospedale. Ma nel 2011 è di nuovo venuta la chiamata del Cuamm, con la richiesta di occuparmi della programmazione. Ed eccoci qua.
Facciamo un salto dalle origini all’attualità. Con che spirito è partito per la Sierra Leone?
All’interno della nostra organizzazione ci siamo chiesti: che facciamo? Nel 1995 avevamo perso un medico per un altro virus, ma della stessa famiglia di ebola... No, non è stata una decisione facile, ma abbiamo deciso di rispondere all’appello. Quella di restare in Sierra Leone è stata comunque una scelta meditata. Quando sono arrivato lì, tra agosto ed ottobre, l’epidemia era nella fase acuta. L’impatto è stato molto forte, nell’ospedale di Pujehun, dove operiamo, erano appena deceduti due operatori sanitari locali. Ho provato in modo forte l’esperienza del limite, un’esperienza che ti provoca anche dal punto di vista spirituale. Ma proprio stando lì ho capito che delle comunità intere non possono essere lasciate sole nella disperazione. E noi, appunto, siamo “medici per l’Africa”.
Come vi siete mossi?
Abbiamo aiutato in tutti i modi gli operatori sanitari, abbiamo realizzato tre centri di isolamento, promosso pratiche si prevenzione e protezione, investito in formazione, a tutti i livelli, abbiamo responsabilizzato le comunità.
“Comunità” è un termine che ritorna spesso nelle sue parole...
In questi anni mi sono reso conto che le comunità sono un soggetto straordinario, vanno attivate, vanno date loro delle responsabilità. In Sierra Leone ho visto con i miei occhi straordinarie capacità di risposta, anche di solidarietà. Ci sono state delle persone che si sono autotassate.
In Sierra Leone com’è ora la situazione?
L’evoluzione di ebola è sotto controllo in Guinea, in arretramento in Liberia. Invece in Sierra Leone gli sforzi sono ancora insufficienti. La malattia ora colpisce soprattutto nell’ovest del paese e nelle aree urbane. Si iniziano ad apprezzare gli interventi di aiuto, ma non ancora in modo soddisfacente. La vera sfida resta quella di convincere le persone a collaborare, con azione di salute pubblica. Ne cito alcune: la sospensione dei riti funebri - in Africa la salma viene lavata, baciata, toccata - la ricerca dei contatti avuti da chi rimane contagiato, la quarantena, l’adeguata protezione del personale medico... Basti pensare che in un solo ospedale sono morti 47 operatori sanitari. In poche parole, vanno bloccati i due binari attraverso i quali si espande la malattia: quello comunitario e quello delle strutture sanitarie.
In pratica lei ci sta descrivendo un paese bloccato...
E qui si inserisce l’altra grande sfida: come mantenere i servizi sanitari di base? Spesso le campagne di vaccinazione sono rallentate o sospese, le donne partoriscono in casa, il personale sanitario più volte ha protestato o scioperato. Tre anni fa abbiamo aperto l’ospedale a Pujehun per migliorare un contesto sanitario che, anche senza ebola, era fragilissimo. E poi dobbiamo considerare l’impatto sociale, economico, relazionale. Ci sono tantissimi orfani. Da giugno le scuole di ogni ordine e grado sono sospese, così come molte manifestazioni sportive, i riti religiosi sono ridotti. Un milione di abitanti su 6 milioni è in quarantena, ci sono posti di blocco ovunque, solo due compagnie aeree volano nella capitale Freetown, il volume d’affari del porto della capitale è ridotto all’osso. Sì, la Sierra Leone è proprio un paese isolato. Eppure, anche l’Oms, accanto alle indicazione di prevenzione, chiede di aprire le frontiere, la paura aggrava solo la situazione.
Quando la Sierra Leone uscirà da questa emergenza?
Le agenzie che lavorano nel paese si sono date come scadenza il prossimo giugno, ma io spero che già prima la situazione migliori.
Neanche il tempo di tornare dalla Sierra Leone, ed ecco una nuova missione. Questa volta nel poverissimo Sud Sudan. Che situazione ha trovato?
E’ stata un’esperienza durissima. La guerra civile ha provocato, secondo la stima Onu, 10mila morti. E a livello sanitario la situazione è molto preoccupante. Molti muoiono perché manca un’assistenza minima, di base. La gente è demoralizzata. Per avere l’indipendenza la popolazione ha combattuto per vent’anni, c’era entusiasmo... ma subito dopo è iniziata la guerra civile. Inoltre mancano vie di comunicazione, le strade sono interrotte, senza manutenzione, alcuni tratti sono insicuri. Ho visto tra l’altro un sacco di armi, in molti casi in mano a civili.
Qual è l’impegno del Cuamm in Sud Sudan?
L’importante è arrivare, con servizi concreti, a persone e comunità. Altrimenti grandi dispiegamenti di mezzi servono a poco. A Yirol, nella regione dei laghi, siamo presenti dal 2007 e stiamo costruendo un ospedale. La povertà è impressionante. Non ci sono strutture, infermieri e medici dormono in una capanna. Lì facciamo degli screening sulla popolazione e cerchiamo di formare il pochissimo personale. A Lui, nel sud del paese, c’è una scuola per ostetriche.
Quale sarà la prossima missione, nel 2015?
Penso in Tanzania. E poi tornerò in Sierra Leone.