venerdì, 11 ottobre 2024
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Democrazia e libertà alla prova del coronavirus

Ciò che ancora forse non è chiaro è se lo tsunami che ci ha travolto imprimerà al nostro modo di vivere una svolta verso direzioni nuove e prima imprevedibili, o piuttosto non si porrà come acceleratore di dinamiche già presenti nella nostra società. 

Che il coronavirus sia il “cigno nero” della nostra epoca è un’affermazione che non ha bisogno di particolari dimostrazioni. Ciò che ancora forse non è chiaro è se lo tsunami che ci ha travolto imprimerà al nostro modo di vivere una svolta verso direzioni nuove e prima imprevedibili, o piuttosto non si porrà come acceleratore di dinamiche già presenti nella nostra società. Questo dubbio interpretativo è particolarmente significativo, se guardiamo ai processi decisionali che hanno condotto i governi a contrastare il contagio anche tramite il sacrificio di alcuni diritti fondamentali di libertà. E’ evidente che i provvedimenti assunti per limitare le libertà
costituzionali di movimento delle persone, del diritto al lavoro e dell’iniziativa economica sono più che giustificati in un momento di emergenza. Tuttavia, è bene precisare che in un contesto democratico e liberale, come riteniamo sia il nostro ordinamento, lo “stato di eccezione” che consente ai governi di limitare i diritti fondamentali di libertà dei cittadini non può che essere solo temporaneo e fondato sull’esigenza di porre un limite al rischio che beni altrettanto fondamentali - la salute e la vita siano messi seriamente in pericolo.

Ora, al di là di alcuni scivoloni iniziali, bisogna riconoscere che il nostro governo, anche per l’attenta vigilanza della presidenza della Repubblica, si è mosso nell’ottica di riconoscere da un lato l’esigenza di un intervento rapido tramite provvedimenti immediatamente efficaci assunti dall’esecutivo, e dall’altra quella di coinvolgere nelle decisioni fondamentali il Parlamento, che rappresenta il “luogo” in cui si esprime in modo compiuto la rappresentanza democratica tramite la dialettica tra la maggioranza e la libera opposizione. Ciò sembra non sia accaduto in altri Paesi, anche dell’Unione europea - si pensi per esempio all’Ungheria - dove lo “stato di eccezione” è stato sfruttato dai Governi per ottenere “pieni poteri”, svincolati dal controllo democratico del Parlamento. Nel nostro sistema, complesso e per certi aspetti “policentrico” anche dal punto di vista della distribuzione del potere nei territori, il controllo democratico sull’operato del governo nella limitazione di diritti fondamentali sembra dunque essere stato assicurato.

Una pericolosa insofferenza

Nondimeno, occorre sottolineare che il rispetto formale delle “procedure” decisionali non è tutto: cresce infatti nel Paese una certa insofferenza rispetto alla macchinosità con cui maturano le decisioni nello stato democratico, e viene sottolineato, anche da una certa stampa, come in altri paesi meno “liberali” del nostro (Cina, Corea del Sud, Russia, ecc…) la maggior mano libera garantita a quei governi nella compressione dei diritti fondamentali avrebbe consentito di ottenere risultati migliori nella mitigazione del contagio. Non solo: qua e là si mette in discussione l’assetto della distribuzione dei poteri alle Regioni, in particolare in ambito sanitario, chiedendo “più Stato” e meno “confusione” nella “catena di comando”. Oltre a ciò si ipotizza persino di giungere a sfruttare alcune novità tecnologiche al fine di “monitorare” gli spostamenti delle persone per verificare con chi e quando i possibili “untori” siano venuti in contatto: beninteso, sempre al buon fine di prevenire la diffusione dei virus. Come si vede queste direttrici di critica all’attuale sistema decisionale del nostro Paese, messe in luce inevitabilmente dalla crisi pandemica, non sono delle novità, ma erano ben presenti nella nostra cultura sociale: il desiderio dell’uomo forte al comando; l’insofferenza per i processi decisionali democratici; il desiderio di un controllo sociale più stringente (ovviamente quando riguarda la vita degli altri); la necessità di sentire lo stato più efficace e risoluto nella difesa dai “nemici” esterni; la teorizzazione dell’inutilità di alcuni “luoghi reali” di formazione delle decisioni, da sostituire con tecniche e processi virtuali e digitali.

Democrazia alla prova

In questo senso, l’attuale epidemia più che portare a una “svolta” nelle relazioni tra la democrazia, la libertà e la necessità di uno stato efficiente, potrebbe in effetti compiere da “acceleratore” di alcuni processi in corso che paiono convergere verso un indebolimento della democrazia rappresentativa, di cui si smarrisce il ruolo di garanzia dei diritti fondamentali delle persone. Assecondare tali pulsioni, in nome dell’efficienza (o della protezione), sarebbe peraltro probabilmente una risposta sbagliata ai pur presenti difetti del nostro sistema democratico. E’ evidente infatti che se i provvedimenti dell’autorità, ancorché dolorosi e non privi di qualche confusa slabbratura, stanno dando i loro frutti e sono nel complesso accolti con ordine nel Paese, è perché le persone ancora sono in grado di riconoscersi parte di una comunità. Il vincolo di solidarietà che ci lega come cittadini, e la consapevolezza che gli uni siamo custodi e garanti degli altri, è stato il vero sostegno in questo tempo di difficoltà, e lo dovrà essere ancora nel prossimo futuro, in cui non è escluso che si dovranno affrontare prove impegnative specialmente sotto il profilo economico. Forse è importante allora che, nell’affrontare i necessari cambiamenti e riforme dell’assetto ordinamentale per correggere le innegabili criticità che il virus ha messo in luce, non si smarrisca la necessità di valorizzare il senso di comunità che accomuna i cittadini, e che può essere custodito solo nella valorizzazione della democrazia, cioè della effettiva partecipazione di tutte le persone ai processi decisionali. Questo sì sarebbe un vero frutto buono da cogliere tra le spine drammatiche della situazione che viviamo. Coltivare invece le radici illiberali che pure crescono nel sottosuolo della società avrebbe l’effetto di fomentare lo scontro sociale, e, necessariamente, di valorizzare solo le istanze dei più “forti”, a scapito di un progetto comune di rinascita che invece per crescere ha bisogno del concorso di tutti noi.

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