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Addio al primario Stefano Lamon, la sua vita è stata un continuo dono agli altri


Ognuno dei 1.500 presenti sabato 19 luglio in duomo a Treviso per dare l’ultimo saluto al dottor Stefano Lamon avrebbe potuto andare al microfono e raccontare di quanto fosse speciale il parente, l’amico, il medico che ci ha lasciati, a causa di quella stessa malattia che combatteva ogni giorno nel reparto di Oncologia di Oderzo. Il “suo” reparto, perché creato proprio dal suo trasferimento dal Ca’ Foncello all’ospedale opitergino. E in quanti l’hanno seguito! Pazienti e loro famigliari che riponevano grande fiducia nelle sue eccellenti competenze cliniche, frutto di continuo aggiornamento, ma che, soprattutto, apprezzavano in Lamon la grande umanità e l’empatia con cui venivano seguiti. Curati, perché si prendeva cura della persona, nel suo insieme. “Una gravissima perdita umana ancor prima che professionale”, recita la nota del direttore generale dell’Ulss 2, Francesco Benazzi.
“L’eredità che ci è stata testimoniata e ci ha lasciato è il pensarsi e il viversi non semplicemente come colui che offre dei servizi preziosi e competenti, ma nell’essere proteso a donarsi, non manifestando assolutamente il peso e il sacrificio che questo può richiedere, ma piuttosto nel vivere con gioia quella dedizione”, ha detto il vescovo di Piacenza - Bobbio, mons. Adriano Cevolotto, amico di famiglia, che ha presieduto la cerimonia funebre concelebrata da numerosi sacerdoti.
Lamon ha vissuto, fino alla fine, con assoluta coerenza i valori in cui credeva, a cui si era abbeverato in famiglia e aveva, poi, condiviso con la moglie Silvia e insegnato ai suoi figli.
Così lo ha ricordato su Facebbook una persona: “I miei ricordi di bambino e adolescente, tu, il nostro idolo in prima squadra a Sant’Angelo, tu, il nostro catechista, tu, animatore di estati infinite ai centri estivi, tu, e la porta di casa tua sempre aperta per noi ragazzi... Lo so, sei stato un grande medico, ma per me ora riaffiora solo quello Stefano della mia gioventù e così in tanti di quei ragazzini che hai accompagnato in quegli anni sulla strada della vita”. Quella disponibilità per gli altri che lo ha portato, insieme a Silvia, a prestare servizio con il Cuamm a Matany, in Uganda, dal 1990 al 1992. “Un professionista scrupoloso, attento, preciso e sempre molto entusiasta di quello che stava facendo e delle nuove sfide”, ricorda il dottor Fabio Manenti, che ha condiviso il periodo africano. Toccante il ricordo del figlio, che lo ha accostato alla figura del gregario nel ciclismo, sport di cui il padre era grande appassionato. Gregario “che dà fondo alle proprie energie per accompagnare un compagno allo sprint più importante”. Questo è quello che apprezzavano del padre, “il tuo donarti a chiunque chiedesse aiuto, senza domandare nulla, con il solo scopo di vederlo arrivare al traguardo. Non c’era gratificazione che reggesse: a te bastava essere lì, sotto al palco delle premiazioni e gioire per la vita, quella vera”. Un interminabile applauso lo ha accompagnato nel suo ultimo viaggio terreno.
Alla moglie Silvia e ai figli Giovanna, Giuseppe e Pietro, a mamma Bruna e alle sorelle Lucia e Anna, la vicinanza di Vita del popolo. (Lucia Gottardello)