martedì, 06 maggio 2025
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Con Gesù allontaniamo le tentazioni - I domenica di Quaresima

Di fronte alle insidie del male, fin da subito la liturgia indica un punto di riferimento sicuro: il ricordo delle parole pronunciate da Dio

La prima domenica di Quaresima, detta “della tentazione”, introduce ai quaranta giorni che preparano alla Pasqua annunciandoli come un “tempo di prova”. I fatti di attualità rendono questo dato ancor più evidente; ma di fronte alle insidie del male la liturgia indica fin da subito un punto di riferimento sicuro: il ricordo delle parole pronunciate da Dio.
Allora il diavolo lo lasciò
Tutti gli evangelisti “sinottici” (Mt, Mc e Lc) sono concordi: è lo Spirito Santo a spingere Gesù nel deserto “per essere tentato dal diavolo” (Mt 4,1-11). Se Dio non può volere il male per il suo Figlio, significa che anche la prova può portare con sé qualcosa di “buono”. Gesù, che è veramente “Figlio di Dio”, vive pienamente quello che ogni uomo sperimenta: la tentazione dell’avere, dell’apparire, del potere. Ad ognuna di queste, si può rispondere in maniera efficace solo guardando a Dio e alla sua Parola. In questo caso, il riferimento è al Deuteronomio, nel quale Mosè rilegge l’esperienza del popolo nel deserto. Allora, come oggi, anche le esperienze che possono sembrare negative, dure e faticose, si possono rivelare – a posteriori – come un’occasione per conoscere meglio Dio e per prendere consapevolezza della propria fragilità, amata da Dio.
Le prove sperimentate da Gesù mettono in luce anche la radice più profonda di ogni tentazione. Per due volte il diavolo gli chiede “Se tu sei il Figlio di Dio”, quasi a contestare la sua identità: tenta di insinuare il dubbio sulla sua relazione con il Padre, come se non fosse veramente il Figlio amato in cui Dio ha posto il suo “compiacimento” (Mt 3,17). Ogni uomo, quando è tentato, sperimenta il medesimo dubbio diabolico: ma davvero la mia vita è preziosa per Dio? Davvero è capace di amarmi così come sono? Non rischio di sprecare la mia vita, fidandomi di Lui?
L’evangelista Matteo lascia come ultima la tentazione del “potere”: “Tutte queste cose io ti darò, se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai” (Mt 4,9). Ma la reazione di Gesù risulta ormai decisa: prima ancora di fare l’ennesimo riferimento alla Parola di Dio, prende decisamente le distanze da lui: “Vattene, Satana!”. Quando – fosse anche per un obiettivo apparentemente buono – si arriva ad “adorare” qualcosa, o qualcuno, invece di Dio, è chiaro che si sta prendendo una strada sbagliata. Consola il fatto che il diavolo se ne va sconfitto, di fronte alla netta presa di posizione di Gesù: con Lui, ciascuno di noi può liberamente e con successo allontanare da sé la fonte di ogni tentazione al male.
È vero che Dio ha detto?
Il tentatore, rappresentato dal serpente nel testo della Genesi (Gen 2,7-9; 3,17), fin dall’inizio insinua un dubbio riguardo a Dio, alla sua bontà e alle sue intenzioni nei confronti dell’uomo. A questi non basta contemplare tutto quanto Dio ha fatto per lui: i doni a lui elargiti non sembrano mai sufficienti, perché la percezione del proprio limite appare come il torto più grande che Dio gli potesse fare! Potrà mai l’uomo essere felice, se continuamente constata di essere limitato, se si scopre semplicemente una creatura e non il creatore di se stesso? Non è forse un Dio ingiusto questo Creatore che lo ha fatto come “una meraviglia”, in un mondo pieno di possibilità, che gli ha messo nel cuore il desiderio della perfezione e della pienezza di vita, ma non la capacità di giungere a realizzare tali aspirazioni? Queste trovano risposta piena solo nella relazione con Dio: chi non riesce a rivolgere i propri desideri a Lui, o sarà perennemente infelice, o “si accontenterà”.
Il peccato è entrato nel mondo
La Lettera ai Romani, presenta Gesù Cristo in contrapposizione ad Adamo (Rm 5,12.17-19). La morte, che tocca tutti, a prescindere dalle colpe soggettive – che colpa può mai avere un bimbo che non nasce, o che muore durante il parto? – è per Paolo la dimostrazione che, in modo misterioso, quella realtà che chiamiamo “peccato” (al singolare) segna ogni uomo fin dall’inizio della sua esistenza. Anche il fatto che gli uomini morissero prima che fosse consegnata la Legge tramite Mosè, secondo l’Apostolo, significa che il “peccato” era in loro prima che potessero essere responsabili dei propri “peccati” (al plurale). Ma l’uomo non è condannato a rimanere in tale condizione perché, se è bastata la disobbedienza di uno solo per portare tutti gli uomini in una condizione di “peccato”, così, ma molto più, basta l’obbedienza di un solo uomo – Gesù – perché tutti siano resi giusti, cioè riportati in un corretto rapporto con Dio e tra di loro.

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