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L’attualità del Concilio di Nicea

Avvenuto 1700 anni fa. Il 20 maggio le celebrazioni in Diocesi con la messa e la preghiera ecumenica presiedute del vescovo Tomasi

Come comprendere se il Concilio di Nicea - di cui celebriamo i 1700 anni - e le sue scelte rivestono un’attualità per noi oggi? Lo abbiamo chiesto a don Luca Pertile, docente di Ecclesiologia e responsabile dell’ufficio diocesano per l’Ecumenismo. “Per comprendere se e come Nicea aiuta il credente a vivere la sua fede oggi (questo è il senso di “essere attuale”) il presupposto da cui partire è comprendere la Chiesa come Tradizione vivente - spiega don Luca -, cioè come lo sforzo che ciascuna generazione fa di vivere la fede nella propria epoca, con l’atteggiamento evangelico dello scriba che, divenuto «discepolo del Regno dei cieli [...] trae fuori dal suo tesoro cose nuove e vecchie» (Mt 13,52). Da questa prospettiva, Nicea ci aiuta a fare “la nostra parte” nel dinamismo di traditio-receptio-traditio di cui siamo co-protagonisti con il Risorto e lo Spirito”.

Cosa accadde a Nicea?

La risposta più ovvia è: un Concilio. Nella prospettiva sopra indicata, però, appare più opportuno affermare che a Nicea ci fu un grande sforzo di fedeltà della Chiesa del IV secolo di vivere in maniera più autentica la fede in un contesto socio-culturale in rapida trasformazione, soprattutto per i cristiani. Infatti, la nuova situazione creatasi con l’Editto di Milano (313) che concedeva la libertà di culto - precedente a Nicea di soli 12 anni - aveva riproposto alla Chiesa e all’Impero problemi vecchi e nuovi. Tra i tanti, i più significativi erano la lotta all’eresia ariana e l’individuazione di una data per la celebrazione della Pasqua comune a tutti gli “orientamenti” che già allora attraversavano il cristianesimo. Per risolverli, l’imperatore Costantino (272-337), convocò tutta la cristianità dell’Impero nel palazzo imperiale di Nicea (oggi Iznik, 20.000 abitanti a sud-est di Istanbul), rappresentata da 318 vescovi (in prevalenza orientali), che misero in essere alcune vere e proprie “invenzioni”, sempre nell’alveo della tradizione della Chiesa antica per risolvere le varie questioni. In questo senso il Concilio di Nicea è da considerarsi un evento, cioè una “realtà complessa”, che non deve essere ridotta solo al Simbolo (il Credo) che pure il Concilio ha redatto, e che ne è parte integrante.

Quali furono queste “invenzioni”?

La prima fu proprio lo strumento che consentì la risoluzione delle problematiche teologico-canoniche più specifiche: il concilio ecumenico. Nella Chiesa vi erano sempre stati sinodi, a cominciare dal cosiddetto Concilio di Gerusalemme (cfr. At 15), ma non si era mai visto un sinodo che coinvolgesse l’intera ecumene, cioè l’intera “umanità civilizzata” - allora intesa come l’Impero Romano -, pertanto con valore normativo per tutta la Chiesa, anche se i vescovi intervenuti non costituivano l’intero episcopato mondiale. Si trattò di un inedito esercizio di “collegialità”. Una “novità” che approfondì la comprensione della natura sinodale della Chiesa, perché non ha riguardato solo i vescovi fisicamente presenti al Concilio. Infatti, la verità e la validità delle decisioni prese a Nicea (indipendentemente dai decreti imperiali) impiegarono più di un secolo per essere accettate da tutta la Chiesa. Questo processo va sotto il nome di recezione, e fu un processo che interessò l’intero popolo di Dio, dai vescovi ai “semplici” fedeli chiamati ad accogliere quanto Nicea aveva riconosciuto essere parte essenziale della Rivelazione. Il Concilio e la sua recezione rivelarono un tratto costitutivo della vita della Chiesa, sebbene il contesto ecclesiale fosse radicalmente diverso dal nostro.

Il Credo fu un frutto importante?

L’invenzione del “Simbolo universale della fede” fu l’altra grande novità di Nicea. Il Concilio, infatti, compose la “struttura di base” di quello che conosciamo come il Credo niceno-costantinopolitano, le cui affermazioni verranno accolte e ampliate soprattutto “esplicitando” la divinità dello Spirito Santo dal successivo Concilio Costantinopolitano I (381). Si formerà così il “Simbolo” che ancor oggi professiamo. Nel IV secolo esistevano già diversi simboli della fede (simboli battesimali), frutto dell’accordo tra le Chiese locali di una data regione. Ai catecumeni veniva chiesto l’assenso di fede a un simbolo piuttosto che a un altro, in base alla Chiesa in cui ricevevano il battesimo. Questa grande ricchezza e varietà, però, aumentava il rischio che all’interno di queste formule di fede s’insinuasse l’eresia e, in ogni caso, l’unità delle Chiese attorno alla stessa fede risultava sempre molto fragile, perché diversi erano i simboli che la codificavano. L’elaborazione del Credo niceno-costantinopolitano, vincolante per tutto l’ecumene, oltre a costituire un approfondimento nella comprensione del Mistero Trinitario di Dio, diventerà lo strumento per custodire tanto la verità della fede (l’ortodossia), quanto l’unità della Chiesa, in quanto viene ad essere la “carta d’identità teologica” del cristiano, che racchiude gli elementi essenziali della fede cristiana a cominciare dall’affermazione della consustanzialità del Figlio con il Padre, allora messa in discussione dalla dottrina di Ario (arianesimo).

Quale relazione possiamo vedere con il presente?

Una potrebbe riguardare l’aspetto dogmatico, l’altra quello ecumenico. In Occidente già a partire dagli anni Novanta del secolo scorso si è affermato un “nuovo arianesimo” per cui si crede che Gesù sia stato “un grande” della storia, in ragione dei suoi insegnamenti, della sua coerenza di vita, della sua dedizione al prossimo, ma non si arriva a riconoscerlo come il Figlio di Dio, Dio come il Padre, con l’attuale crisi di Speranza che questo comporta. Circa il versante ecumenico, invece, in un mondo sempre più multiculturale e plurireligioso, spesso si tendono a mettere sullo stesso piano le diverse Confessioni cristiane e le Grandi religioni monoteiste (e non solo). In questo contesto, il Simbolo ci ricorda non solo l’unicità della mediazione salvifica di Cristo, ma anche il fatto che tra i “non cattolici” ci sono cristiani che, come noi, professano le verità contenute nel Credo, benché celebrino e vivano la fede in maniera molto diversa dalla nostra. Equipararli agli altri credenti significa non solo misconoscere che il Cristo è la fonte della nostra gioiosa identità, ma anche dimenticare di avere con loro un legame più forte di quello del sangue.

E la data della Pasqua?

La cristianità antica si era sempre divisa sulla data in cui celebrare la Pasqua che veniva calcolata sostanzialmente seguendo due diverse tradizioni, entrambe di origine apostolica: quella “quartodecimana”, dipendente dalle indicazioni contenute nel Vangelo di Giovanni, e quella “domenicale”, dipendente invece dai sinottici. Nel dibattito in seno al Concilio venne stabilita la regola che ancora oggi viene seguita per il calcolo della Pasqua, che deve essere celebrata la domenica seguente o coincidente con il primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera (il 21 marzo). L’uniformità purtroppo s’incrinò nuovamente con la riforma del calendario di papa Gregorio XIV nel 1582, che con la soppressione dei dieci giorni di ritardo accumulati dal calendario giuliano rispetto all’anno astronomico, introdusse il calendario attualmente in uso. Tale riforma, però, non fu accettata da tutta la cristianità e determina l’attuale diversa celebrazione della Pasqua tra le Chiese dell’Occidente, che seguono il calendario gregoriano, e quelle Orientali, che seguono ancora quello giuliano, in vigore al tempo di Nicea. Paradossalmente, le date delle “due Pasque” sono però calcolate ancora secondo la regola elaborata a Nicea. Si tratta di elemento di controtestimonianza, sempre più accentuato in una società pluriconfessionale.

C’è un elemento che a noi cristiani di oggi sembra “fuori luogo”: il fatto che il Concilio sia stato convocato e orientato dall’imperatore Costantino.

Oltretutto l’imperatore non era ancora battezzato... Le motivazioni che mossero Costantino non furono di tipo religioso: egli, infatti, sapeva bene che l’unità politica dell’Impero veniva corroborata dalla professione della stessa fede e dall’uniformità celebrativa. “L’intelligenza” di Costantino fu di comprendere che l’unità della Chiesa e l’ortodossia della fede non dovessero essere imposte o protette “dall’esterno” attraverso un’azione politica, ma “dall’interno” attraverso il confronto religioso. Il risvolto politico di quanto deciso a Nicea fu, come noto, la nascita di un’alleanza tra potere civile e religioso, che assunse forme molto diverse in Occidente e in Oriente. Quella di Nicea, dunque, più che una mossa ecclesiale dettata dall’opportunismo, è da considerare un’azione missionaria e “cattolica”, volta a favorire l’annuncio-incontro con Gesù Cristo del maggior numero possibile di uomini e donne e volta a “cambiare dal di dentro” la società civile rendendola più umana ed evangelica. Una simile consapevolezza - nel rispetto della libertà religiosa e di coscienza - dovrebbe ispirare anche il confronto missionario col mondo contemporaneo. D’altra parte, la Chiesa vive nella storia ed è composta da uomini e donne che la abitano.

In cripta del Duomo di Treviso messa e preghiera ecumenica

Sarà martedì 20 maggio, nella nostra diocesi, l’occasione per celebrare i 1700 anni dal Concilio di Nicea. Alle 19.30, messa nella cripta della cattedrale, presieduta dal vescovo Tomasi, con la possibilità di ottenere l’indulgenza plenaria. Seguirà, alle 20.30, la preghiera ecumenica, presieduta dal Vescovo, cui parteciperanno anche i rappresentanti delle altre confessioni cristiane.

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