La settimana scorsa abbiamo pubblicato una presentazione della lettera apostolica di papa Leone sull’educazione:...
Rifugiato a casa mia, decolla il progetto della Caritas
Diciassette famiglie, cinque parrocchie e tre istituti religiosi: sono le prime porte che si spalancano del progetto “Rifugiato a casa mia”, che sta prendendo forma e si sta diffondendo nel territorio della Diocesi di Treviso. Il progetto è “opera segno” della nostra Chiesa diocesana nata nel contesto dell’Anno della Misericordia.
Diciassette famiglie, cinque parrocchie e tre istituti religiosi: sono le prime porte che si spalancano del progetto “Rifugiato a casa mia”, che sta prendendo forma e si sta diffondendo nel territorio della Diocesi di Treviso. Il progetto è “opera segno” della nostra Chiesa diocesana nata nel contesto dell’Anno della Misericordia. “Promosso a livello nazionale da Caritas Italiana, il progetto ha l’obiettivo di proporre e diffondere un nuovo modello di accoglienza e integrazione dei migranti - sottolinea don Davide Schiavon, direttore della Caritas di Treviso -. L’iniziativa testimonia ancora una volta l’autentica cultura e i valori umani condivisi nell’ottica del bene comune nelle diverse Diocesi. Si auspica possa produrre scelte di responsabilità perché le nostre comunità siano laboratori di un nuovo umanesimo, fatto non di contrapposizioni, ma di relazioni e di incontri”. Il progetto, interamente finanziato da Caritas italiana e Caritas tarvisina, può durare da sei mesi ad un massimo di un anno e prevede un contributo per le spese di 225 euro a famiglia e di 125 euro per le parrocchie e gli istituti religiosi.
Sono già oltre 170 le famiglie, 150 le parrocchie e 30 gli istituti religiosi in tutta Italia che hanno aderito mettendo a disposizione circa 1.000 posti per altrettanti migranti.
Famiglie accoglienti
“Non potevamo rimanere indifferenti ai morti che vedevamo in mare e dopo aver letto sul giornale del prof. Calò, abbiamo pensato che noi come famiglia, avendo dello spazio in casa, potevamo fare qualcosa. Un giorno abbiamo letto che la Caritas lanciava il progetto «Rifugiato in casa mia», ci siamo attivati su internet, siamo arrivati ad un colloquio con don Davide ed Erica, abbiamo frequentato il corso di formazione e il 10 dicembre scorso è arrivato Biran, ventenne dal Gambia”. Lo racconta con un po’ di emozione Elisa Aldrighetti di Paese, segretaria in una scuola, madre di due figli, 5 e 10 anni, che con il marito ha deciso di aprirsi al progetto Caritas “Rifugiato a casa mia”, i cui primi risultati sono stati presentati mercoledì 16 dicembre. Tredici le persone già inserite, ma entro fine anno dovrebbero diventare 20. “Con mio marito - prosegue Elisa - abbiamo pensato che la famiglia poteva essere un luogo di integrazione reale per questi giovani, una famiglia che vive semplicemente con una persona in più di un altro colore, di un altro continente. Ci sembrava il sistema migliore di integrazione... Biran è già diventato il nostro «figlio maggiore» e l’impatto è molto positivo. Ora abbiamo in casa un cantante con una bellissima voce e poiché siamo appassionati di musica, si sta già creando una bellissima collaborazione tra i miei figli e Biran, che domenica ha preparato per noi un piatto africano!”. Elisa a questo non si nega un po’ di emozione e ammette che non c’è stata alcuna reazione da parte di parenti e vicini, perché la loro casa, sin dai suoceri, “è sempre stata una casa aperta, che ha accolto e che ha visto passare molte persone”. Ripete continuamente “Di fronte a ciò che si vedeva non potevamo rimanere indifferenti”.
Per Serena e Bepi Faccin della “casa comunitaria” di Camposampiero, l’accoglienza è “di casa, è uno stile di vita perché innanzitutto fa bene a noi”. Con esperienza nel Gruppone, tre figli, già accolgono una signora moldava ed un giovane marocchino, ma hanno deciso di entrare nel progetto Caritas, dice Serena, “soprattutto per un senso di giustizia perché tutti hanno bisogno di avere una casa nel mondo e per noi cristiani è un rispondere alla nostra vocazione, «avevo fame, sete, ero forestiero e mi avete accolto». Noi abbiamo semplicemente aperto la porta di casa e accolto Famori, 19 enne maliano”. Aggiunge Bepi, macellaio: “Famori condivide in modo molto semplice la vita di casa quotidiana, ma chi viene accolto deve, come tutti in casa nostra, ridonare ciò che riceve ed oltre a mangiare, dormire, andare a scuola, deve fare del volontariato e così si è trovato a lavorare con il Gruppone e con Libera. E’ un modo per integrarsi meglio e creare relazioni. Poi per il resto tutto è molto semplice, al di là della sua provenienza, è un ragazzo come i nostri figli, ha le stesse a volte criticate abitudini, per esempio di usare il cellulare durante il pranzo”. Integrazione è la parola più utilizzata perché l’esperienza, alla fine, non si chiude nella famiglia, è tutta la comunità che si fa carico, in un modo o nell’altro, di Famori e di Biran. E’ il miracolo della Misericordia!



