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Cento anni fa l'assalto fascista a Treviso
Nel luglio 1921 la città visse una delle pagine più buie della sua storia: oltre un migliaio di camicie nere provenienti da tutto il Veneto invasero il centro. Fin dalle prime ore del 13 entrarono numerosi camion carichi di fascisti, il primo bersaglio furono le sedi dei repubblicani in via Manin. Il vescovo Longhin: "Una brutale e selvaggia devastazione compiuta da una teppa di assassini"
Un secolo fa, nel luglio 1921, Treviso visse una delle pagine più buie della sua storia: dovette subire infatti l’invasione di oltre un migliaio di camicie nere provenienti da tutte le province del Veneto, espressione di 247 fasci di combattimento. Si trattò di “una vera e propria operazione di guerra”: così fu definita dall’ispettore generale di pubblica sicurezza. L’assalto di Treviso fu un evento davvero clamoroso, tant’è che uno squadrista, nel suo diario, scrisse che questa era stata la seconda spedizione punitiva in grande stile effettuata fino ad allora in Italia dopo quella di Torre di Pordenone. E il vescovo Longhin la qualificò “una brutale e selvaggia devastazione compiuta da una teppa assassina pagata e armata a scopo di rappresaglia contro il sindacalismo agrario”.
In effetti il fascismo della Marca, fin quasi alla marcia su Roma, si dimostrò inconsistente, sopraffatto da altre forze politiche; il fascio di Treviso, in particolare, era del tutto privo di vitalità. Per ammissione degli stessi ras locali, esso era viziato da un difetto costitutivo, nel senso che, pur potendosi avvalere di persone mature, era alquanto carente di forze giovanili.
Quali erano, cent’anni fa, le condizioni socioeconomiche e politiche della Marca? E’ noto che essa era stata in larga parte occupata, dopo Caporetto, dall’esercito austroungarico ed era divenuta teatro di guerra dal Grappa al basso Piave. Dopo l’armistizio migliaia di profughi erano rientrati nei loro paesi trovando ovunque macerie e sopravvivendo spesso nell’indigenza più nera, talora vittime della terribile febbre “spagnola”. L’esasperazione sociale era aggravata anche dai ritardati risarcimenti per i danni di guerra, dai lavori non finanziati alle cooperative, da una vita condotta ancora da molti in baracche provvisorie, da truffe di funzionari pubblici.
Nel corso del 1920 le lotte agrarie avevano raggiunto il massimo dell’intensità, grazie soprattutto alla capacità di mobilitazione dei contadini organizzati nelle numerosissime leghe bianche aderenti all’Unione del lavoro diretta da Giuseppe Corazzin, grande sindacalista cristiano, che ebbe tra i suoi più stretti collaboratori don Ferdinando Pasin, poi parroco fino in tarda età di S. Martino Urbano. Intercorsero laboriosissime trattative con l’Associazione agraria, spesso osteggiate dai maggiori proprietari terrieri, che accusavano le leghe (ma infondatamente) di “bolscevismo bianco”. Finalmente Corazzin riuscì a ottenere, precisamente nel giugno 1920, la firma in calce ai nuovi patti agrari, consentendo così notevoli miglioramenti contrattuali ai piccoli fittavoli, ai coloni e ai mezzadri. Va anche puntualizzato che parecchie amministrazioni comunali della provincia erano state conquistate dai popolari. I cattolici contavano pure su una fitta rete di organismi associativi, come i reduci di guerra, il segretariato del popolo, le federazioni sindacali di categoria, le casse rurali, le cooperative di lavoro e di consumo, le sezioni di partito.
Il ruolo dei repubblicani dell’on. Guido Bergamo
Una non irrilevante forza politica e sociale ebbero nel dopoguerra, prevalentemente nel Montebellunese e nell’area montelliana, i repubblicani guidati dal giovane on. Guido Bergamo, il quale si ispirava a ideali mazziniani, era stato interventista e propugnava, attraverso il suo giornale “La Riscossa”, una lotta aperta nei confronti sia del socialismo rivoluzionario e marxista (con il quale però condivideva un viscerale anticlericalismo), sia del popolarismo, accusato di subalternità alla Chiesa. In provincia i socialisti, il cui leader era l’on. Angelo Tonello, avevano le loro basi territoriali nella sinistra Piave e nelle località in cui aveva preso piede il movimento operaio, come il quartiere di Fiera di Treviso.
Pare plausibile attribuire la quasi totale assenza di giovani squadristi, lamentata dal fascismo locale, anche alla capillare diffusione dei circoli della gioventù cattolica, che nell’immediato dopoguerra si erano riorganizzati, avviando un programma organico non solo di formazione catechistica ma anche di cultura sociale. Non va dimenticato che proprio nella diocesi di Treviso furono attuate originariamente, al termine dei corsi tenuti in parrocchia, le gare di cultura religiosa, ideate dal prof. Luigi Stefanini, esponente del personalismo filosofico e docente all’Università di Padova, e da don Enrico Pozzobon, assistente ecclesiastico e direttore del periodico giovanile “La Fiamma”. Tale iniziativa, detto per inciso, venne poi estesa alle diocesi della regione e infine anche all’ambito nazionale.
A Treviso, dunque, i fascisti stentarono a prendere piede per la tenace resistenza di numerose roccheforti antifasciste. Purtroppo però popolari, socialisti e repubblicani erano spesso in conflitto tra loro, dando luogo a scontri anche cruenti. Da sottolineare, altresì, che dall’inizio del 1921 diversi proprietari, non riconoscendo i patti colonici stipulati dalle controparti in prefettura nel giugno 1920, presero a intimare la disdetta segnatamente ai capilega e ai contadini più determinati nel rivendicare i loro legittimi diritti, ricorrendo anche ai tribunali per rendere esecutivi gli sfratti. Per arginare tale reazione padronale, Corazzin, che era tra l’altro presidente dell’Amministrazione provinciale, istituì un ufficio temporaneo di collocamento, mentre l’ufficio legale dell’Unione del lavoro intensificava la sua azione per impedire nuovi sfratti di famiglie rurali, che rischiavano altrimenti di rimanere sul lastrico. Volendo però imporre a tutti i costi i loro interessi e far cessare gli scioperi dei lavoratori, non pochi agrari cominciarono a far affluire squadristi da fuori provincia, i quali ricorrevano, come metodo di lotta, alle intimidazioni e ai pestaggi. In effetti, a differenza degli altri capoluoghi di provincia del Veneto, a Treviso il fascio di combattimento, finanche nel 1921, figurava solo sulla carta, e i pochi fascisti locali continuavano a subire l’aggressività della stampa avversaria, specie del giornale bergamino.
Pertanto, non più sopportando che le fiorenti organizzazioni dei lavoratori continuassero a tenere in scacco la classe padronale, la commissione esecutiva regionale dei fasci, riunitasi a Venezia, stabilì di effettuare immediatamente una spedizione punitiva su Treviso, affidandone il comando al capitano Gino Covre. Fin dalle prime ore del 13 luglio entrarono in città numerosi camion carichi di fascisti armati di tutto punto con mitragliatrici e bombe a mano. Primo importante bersaglio da colpire furono le sedi riunite dei repubblicani in via Manin. Il plesso venne difeso per ore da una ventina di attivisti armati, tra cui gli arditi aderenti alle “avanguardie repubblicane” della Marca. Le camicie nere intendevano punire severamente “i sovversivi” capitanati dall’on. Bergamo. La battaglia si concluse con numerosi feriti: i repubblicani assediati, dopo aver opposto una fiera resistenza, dovettero alla fine capitolare e si salvarono attraverso i tetti delle case vicine. Penetrati nella loro sede, i fascisti la devastarono selvaggiamente.
Irruppero poi a palazzo Filodrammatici, sede delle associazioni cattoliche, senza trovare ostacolo né da parte dei responsabili del quotidiano popolare “Il Piave”, né da parte dei militari posti a presidio, i quali si astennero da ogni opposizione. Anche il 14 luglio i fascisti spadroneggiarono a Treviso, procedendo a perquisizioni personali, picchiando cittadini trovati in possesso di tessere dei vari partiti, saccheggiando abitazioni di avversari politici, devastando alcuni caffè ritenuti ritrovo preferito di antifascisti.
Mons. Longhin e l’invito alla pacificazione
Mons. Longhin, rivolgendosi alla popolazione, deplorò i “fatti dolorosissimi” che avevano funestato la città, appellandosi alle pubbliche autorità perché accertassero le responsabilità e prendessero gli adeguati provvedimenti; nel contempo egli invitò tutti a fare opera di pacificazione. Uscito il 18 luglio in formato ridotto dopo la devastazione della tipografia, “Il Piave” era così intestato: “Esce mutilato per la barbarie distruggitrice dei cosidetti restauratori dell’ordine”.
Il quotidiano di Corazzin denunciò senza mezzi termini il contegno delle autorità, le quali, benché informate da fonti diverse della progettata spedizione, non avevano predisposto alcuna sufficiente difesa, consentendo addirittura che il comando fascista prendesse posto indisturbato in un centralissimo albergo cittadino. Il questore di Treviso tentò di giustificare la mancata resistenza della forza pubblica, adducendo che un suo intervento avrebbe probabilmente provocato un massacro. Nella sua lucida disamina, “Il Piave” invitava a individuare e sanzionare sia i singoli squadristi macchiatisi di atti di violenza e illegalità, sia i comandi militari e i funzionari pubblici colpevoli di connivenza, mostrando così che “l’associazione a delinquere non era tollerata dalle leggi d’Italia. O che le leggi servono soltanto - si chiedeva il giornale - a punire il leghista che avesse trattenuto i polli del proprietario?”. Il questore, nella sua relazione, riferì che i fascisti invasori erano munitissimi di armi e mezzi, e che la spedizione sarebbe costata somme ingenti, probabilmente saldate da un comitato di Padova. Ciò dimostrava l’esistenza di un’organizzazione illegale in cui non penetrava ancora l’occhio della pubblica autorità.
Gli avvenimenti del 13 e 14 luglio indignarono profondamente la popolazione ed ebbero una risonanza nazionale. Lo stesso don Luigi Sturzo, segretario politico del Partito popolare, interpellò l’allora capo del governo, Bonomi, sui fatti di Treviso, chiedendo di mettere sotto inchiesta e privare delle cariche esercitate i funzionari che avevano tollerato o non avevano saputo prevenire l’invasione della città.
Si diffuse poi la notizia di una possibile nuova rappresaglia su Treviso. Il prefetto, che evidentemente simpatizzava con i metodi fascisti, faceva risalire un tale pericolo alla poca volontà (!) del sindacato bianco di chiudere le vertenze agrarie ancora in corso. In realtà cedere alle pretese dei proprietari terrieri avrebbe significato perdere le conquiste ottenute nelle lotte agrarie del 1920 e ritornare ai preesistenti, inaccettabili contratti di tipo semifeudale.
Nei mesi successivi gli scontri provocati dai fascisti si accentuarono in diverse località della Marca fino, ma anche successivamente, alla presa del potere da parte di Mussolini il 28 ottobre 1922. Le camicie nere tuttavia continuavano a essere chiamate quasi sempre da altre province per stroncare gli scioperi indetti da contadini e operai. Ancora nell’agosto 1922 i fascisti imposero al governo di far cessare uno sciopero dei lavoratori entro 48 ore. Tale illegale e faziosa pretesa induceva “La Vita del popolo” a un’amara costatazione: “Quarantott’ore! Dunque c’è in Italia un partito che è superiore al governo, che è sopra la legge, che ci pensa lui”.
Le dolorose vicende di un secolo fa, qui ricostruite in sintesi, evidenziano come la democrazia e la giustizia sociale siano beni preziosi da tutelare, da non dare mai per scontati e ai quali occorre educare le nuove generazioni. Far memoria di momenti e di processi storici, in cui tali irrinunciabili valori della nostra società sono stati infranti, può forse suscitare una qualche attenzione finalizzata a far crescere una rinnovata cultura politica adeguata ai tempi.