venerdì, 20 giugno 2025
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La fame aumenta

Secondo un recente rapporto dell’Onu l’insicurezza alimentare nel mondo e la malnutrizione infantile sono aumentate, nel 2024, per il sesto anno consecutivo. Livelli “catastrofici” a Gaza, in Sud Sudan, Haiti e Mali. Ne parliamo con la prof. Alkire dell’Università di Oxford

A inizio di maggio è uscito il Rapporto annuale sullo Sviluppo umano, redatto dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) dove si sottolinea che lo scorso anno la fame nel mondo ha raggiunto un nuovo picco e le prospettive per il 2025 sono “fosche”.

L’insicurezza alimentare acuta e la malnutrizione infantile sono aumentate per il sesto anno consecutivo nel 2024, colpendo oltre 295 milioni di persone in 53 paesi e territori. I conflitti sono stati la principale causa di fame, colpendo quasi 140 milioni di persone in 20 Paesi nel 2024, comprese aree che affrontano livelli “catastrofici” di insicurezza alimentare come Gaza, Sud Sudan, Haiti e Mali. Il Sudan ha confermato condizioni di carestia.

Allargando lo sguardo si evidenzia come lo scorso anno 455 milioni di persone in 112 Paesi e territori - che hanno una popolazione di 6,3 miliardi di persone – abbiano vissuto “all’ombra del conflitto”.

Gli shock economici, come l’inflazione e la svalutazione della moneta, hanno contribuito a far precipitare 59,4 milioni di persone in crisi alimentari in 15 paesi, tra cui Siria e Yemen.

Eventi meteorologici estremi, in particolare siccità e inondazioni causate dal fenomeno El Niño, hanno gettato 18 paesi nella crisi, colpendo oltre 96 milioni di persone, soprattutto nell’Africa meridionale, nell’Asia meridionale e nel Corno d’Africa.

Il documento evidenzia come il progresso umano, misurato attraverso l’Indice di sviluppo umano (Isu), sia in stallo o addirittura regredito in molte aree, segnalando una rottura nelle dinamiche di sviluppo che per decenni avevano portato a miglioramenti costanti. I conflitti, gli eventi meteorologici estremi e gli shock economici sono tra i principali fattori scatenanti la fame e la povertà.

Nel Rapporto trova spazio anche la riflessione sul potenziale dell’intelligenza artificiale nel supportare organizzazioni e istituzioni nella trasformazione delle economie e delle società.

Sul rapporto tra povertà, guerra e crisi alimentari abbiamo intervistato la professoressa Sabina Alkire, direttrice dell’Oxford poverty and human development initiative (Ophi), docente di Povertà e Sviluppo umano all’Università di Oxford e sacerdote anglicana. È anche accademica ordinaria della Pontificia zccademia delle Scienze sociali.

I tassi di povertà sono tre volte più alti nei Paesi in guerra, mai così alti dalla fine della Seconda guerra mondiale. Perché questo aumento, nonostante l’aumento della ricchezza e lo sviluppo delle conoscenze tecniche nel mondo?

Non sappiamo se questi dati siano più alti o più bassi rispetto alle epoche precedenti. Ma ciò che sappiamo, per certo, è che la povertà in situazioni di conflitto, secondo ciascuna di queste tre indicatori, è più alta rispetto ai Paesi non colpiti da conflitti, fragili, o con un basso livello di pace. Ad esempio, il 34,8% delle persone che vivono in Paesi in guerra, vive in povertà multidimensionale acuta. Ma nei Paesi non colpiti da conflitti, questa percentuale è solo del 10,9%. Negli Stati fragili e colpiti da conflitti, il 45,1% delle persone è povero a livello multidimensionale. In tutti gli altri Paesi, questa percentuale è solo del 14,9%. In contesti di pace molto bassa o bassa, oltre un terzo - il 34% - delle persone è povero. Ma nel resto dei Paesi, questa percentuale è del 15%. Quindi, la povertà multidimensionale è sempre in media due o tre volte superiore rispetto agli altri contesti.

Cosa si intende per povertà multidimensionale?

La povertà multidimensionale identifica le privazioni simultanee che le persone affrontano riguardo alla salute (come l’alimentazione e l’accesso alle cure), o nell’istruzione (es. bambini che non vanno a scuola, persone che vivono in famiglie in cui nessuno dei membri ha completato il ciclo scolastico di base) o nel tenore di vita (come l’accesso all’acqua, ai servizi igienici, all’alloggio, all’elettricità, all’energia pulita). La povertà va, quindi, analizzata tenendo conto dei diversi fattori che la caratterizzano tra cui anche la presenza e l’intensità di un conflitto.

Dove vivono le persone che soffrono di povertà estrema?

L’83% degli 1,1 miliardi di persone povere del mondo a livello multidimensionale, vive nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale. Si tratta di persone che vivono sia in Paesi a basso reddito che in Paesi a medio reddito in condizioni di conflitto. Colpisce che quasi due terzi dei poveri del mondo vivono in Paesi a medio reddito ma che sono in guerra.

Cosa può fare la comunità internazionale per ridurre questo divario?

Innanzitutto si deve rilevare come gli aiuti allo sviluppo siano stati ridotti e i tagli stanno gravando nelle aree più povere del mondo. Gli investimenti nello sviluppo e nel sostegno nelle vite umane dimostrano ampiamente i grandi benefici nella riduzione della povertà. Una adeguata istruzione garantisce ad esempio maggiori possibilità di sussistenza economica, garantendo così una vita più sana e dignitosa. Per questo, la comunità internazionale è chiamata a riequilibrare gli investimenti che sono stati modificati a causa del trasferimento degli aiuti allo sviluppo esteri alla difesa o dei tagli complessivi. È vero che i programmi rivisti devono essere verificati nel rapporto costi-benefici. Devono dare capacità decisionale ai protagonisti. Devono essere soluzioni sostenibili che creino un cambiamento strutturale e non una dipendenza continua, anno dopo anno, da trasferimenti just-in-time. Ma quando si effettuano investimenti di questo tipo, possiamo e abbiamo assistito a riduzioni trasformative. Non possono fermarsi.

Un esempio per capire...

È vero che 402 milioni di persone povere multidimensionali vivono nell’Asia meridionale, ma è anche vero che nei 15 anni tra il 2005-06 e il 2019-21, 415 milioni di persone povere hanno abbandonato la povertà multidimensionale in India. Un numero maggiore di persone ha abbandonato la povertà in India in 15 anni rispetto a quelle che rimangono povere in tutta l’Asia meridionale. Questo dimostra che il cambiamento è possibile, è possibile su larga scala ed è possibile in diverse strutture di governance.

E allora, cosa bisogna fare?

La questione della povertà deve essere considerata prioritaria, sia a livello internazionale che nei governi nazionali. E gli attori che hanno successo nella riduzione della povertà devono essere riconosciuti e celebrati, così che il successo nella riduzione della povertà possa essere uno stimolo per continuare sulla strada intrapresa o per altri leader. Per riconoscere i successi e fornire informazioni ai nuovi attori che combatteranno la povertà, mentre gli attori tradizionali potrebbero abbandonarli, abbiamo bisogno di dati: dati aggiornati, precisi e fruibili a livello nazionale e statale, persino a livello locale. Eppure, viviamo in un tempo in cui anche i dati sono vittime dei recenti tagli ai progetti di sviluppo. 44 Paesi e 3,12 miliardi di persone dispongono di dati sulla povertà multidimensionale acuta che provengono dalle indagini demografiche e sanitarie finanziate dall’Usaid (fondi americani per lo sviluppo), oggetto dei recenti tagli. La mancata raccolta dei dati determina una grave perdita per il mondo accademico, i Governi e gli attori politici, perché questi dati permettevano di avere una visuale sulle aree di crisi, sui risultati raggiunti, sugli obiettivi da perseguire.

Oltre a essere direttrice dell’Ophi presso l’Università di Oxford, da alcuni anni è membro della Pontificia accademia delle Scienze sociali. Quali sono le riflessioni che la Chiesa cattolica sta sviluppando su povertà e sviluppo umano?

Sono profondamente onorata di essere membro della Pontificia accademia delle Scienze sociali. È un organismo che rispetto profondamente perché riunisce esperti di diverse discipline, cattolici e persone di fede e di buona volontà in tutto il mondo per cercare di affrontare problemi urgenti in modi che siano al tempo stesso accademicamente rigorosi, concretamente attuabili e profondi o trasformativi. Per quanto riguarda la povertà multidimensionale, che è la mia area di competenza, questo argomento ha una forte risonanza con la dottrina sociale della Chiesa cattolica e la sua enfasi sul miglioramento della crescita umana integrale di tutte le persone su un pianeta comune.

Quale eredità ci ha lasciato papa Francesco?

Papa Francesco ha riformulato con forza molti dei principi fondamentali della dottrina sociale, come l’importanza della nostra vocazione alla crescita umana integrale, e la sua naturale abitudine di contrapporre la giustizia umana e sociale alla maturità spirituale e alla misericordia ha arricchito notevolmente la discussione. Ha anche sottolineato l’importanza vitale di prendersi cura del nostro pianeta, apprezzandone la bellezza e l’integrità come creazione di Dio. Papa Francesco ha proposto intuizioni particolari come la globalizzazione nella differenza, che è al tempo stesso vera e tragica. E questa indifferenza è qualcosa di cui ci ha giustamente ricordato di essere consapevoli e di impegnarci per superarla. In questi e altri modi, papa Francesco è stato un ponte potente per molti cristiani e per coloro che appartengono ad altre religioni, soprattutto i giovani, che cercano sinceramente Dio attraverso la cura per i poveri e gli emarginati, la cura per la terra e la costruzione della pace, comprendendo che questi sono centrali nella nostra fede insieme alla liturgia, alla comprensione della Scrittura e ai sacramenti. Ha mantenuto fedelmente questo equilibrio. (Enrico Vendrame)

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