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Mons. Pizzaballa: "Essere testimonianza a Gerusalemme"

“A Natale celebriamo sempre lo stesso evento, la nascita di Gesù tra gli uomini avvenuta a Betlemme duemila anni fa, ma ricordare ogni anno questa nascita provoca in noi una domanda che ci disturba”, afferma l'amministratore apostolico del Patriarcato Latino.

20/12/2018

Lo scorso 29 novembre, all’Istituto di Studi Ecumenici “San Bernardino” di Venezia ha avuto luogo l’inaugurazione dell’Anno Accademico 2018/2019. La prolusione è stata tenuta da mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, che, alla presenza di un numeroso pubblico e grazie alla decennale esperienza in Terra Santa, ha parlato del “Dialogo francescano nella terra della Parola”. Padre Pierbattista Pizzaballa, 53 anni, bergamasco di origine, francescano, ha iniziato i suoi studi teologici a Gerusalemme, mandato dai suoi superiori e da lì non si è più spostato, insegnando prima all’Università, poi diventando Custode di Terrasanta, nella cui veste ha accolto papa Benedetto XVI e papa Francesco, e infine da due anni è stato nominato vescovo e amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme, la massima autorità cattolica in Terrasanta. A lui, a margine della cerimonia di apertura dell’Anno Accademico all’Istituto Studi Ecumenici di San Bernardino a Venezia, abbiamo rivolto qualche domanda.
Qual è la situazione attuale dei cristiani in Medio Oriente?
I cristiani in Terrasanta sono pochi, il loro numero è molto ridotto: 8.000 a Gerusalemme, 130.000 in Israele, 45.000 in Palestina, a fronte di milioni di persone residenti in quei luoghi. Vivono dinamiche molto diverse: in Israele vivono problemi di identità e riconoscimento all’interno della società israeliana, mentre in Palestina hanno problemi sociali ed economici rilevanti. Tuttavia quella dei cristiani è una comunità che non sta morendo, non sta scomparendo. Il cristianesimo in Terrasanta è sempre stato minoranza, non ha mai avuto il dominio del territorio, e credo che soprattutto oggi sia un segno della Provvidenza: ciò che il Signore vuole dai cristiani in Terrasanta, da noi, non è che siamo potenti, perché se fossimo potenti il potere parlerebbe per noi. Noi qui dobbiamo parlare attraverso la testimonianza e con le opere credibili, non attraverso il potere. L’impegno deve essere solo quello di cercare di costruire relazioni, nelle scuole, negli ospedali, nelle famiglie.
I pellegrinaggi possono aiutare in questa vostra opera?
Certo, sono importanti. Quest’anno sono stati in grande aumento, arrivando a portare ben 4 milioni di pellegrini, una presenza mai vista nei luoghi santi. L’aspetto più interessante, inoltre, è dato dall’aumento di quei pellegrini che in piccoli gruppi o individualmente, oltre a visitare i luoghi santi, desiderano sostare per un tempo più prolungato. Questo comporta la necessità di modificare anche le proposte di offerta spirituale per questo pellegrinaggio più intenso.
Come ha vissuto la sua esperienza di Padre Sinodale nel recente Sinodo dei Giovani voluto da papa Francesco?
La bellezza del Sinodo è stata la condivisione con gli altri vescovi e padri sinodali: sentire le loro esperienze. La maggior parte di loro, pur proveniente da parti del mondo non occidentale, mi ha fatto capire come la Chiesa stia cambiando, anche come composizione geografica e demografica, e quindi sta cambiando anche la prospettiva di leggere e intendere le storie della vita dei giovani. Ho, però, visto che abbiamo molte cose in comune rispetto alla situazione dei giovani, i problemi sono gli stessi: la disoccupazione, la perdita dei riferimenti famigliari e culturali, l’allontanamento dalla Chiesa che è vista come un centro di potere e non come una realtà dalla quale attingere energie e vita. E’ stata un’esperienza molto interessante, anche se non so quanto di ciò che è emerso si riuscirà a tradurre nella vita pastorale della Chiesa.
Che augurio può fare ai cristiani della Diocesi di Treviso che stanno vivendo l’esperienza del “Cammino Sinodale”, voluta dal nostro vescovo Gardin?
Sinodo vuol dire “camminare insieme” e l’aspetto interessante è dato dalla metodologia del cammino, dal modo di essere Chiesa: la Chiesa non deve essere ferma, statica, bloccata sul “si è sempre fatto così”. Quindi bisogna mettersi in gioco, ascoltare la realtà, perdere qualcosa di inutile oggi per cercare qualcosa di più importante. Questo non lo può decidere il vostro Vescovo da solo, né i vostri preti da soli e nemmeno la gente da sola senza il vescovo e i preti: dovete deciderlo insieme avendo ben chiari i punti fermi e l’orientamento. Lo scopo non deve essere quello di fare numero o di riacquistare visibilità e centralità nella vita sociale. Lo scopo deve essere quello di comunicare Cristo oggi, nella vita degli uomini e delle donne di questo tempo.
Un augurio per il Natale che viene?
Natale richiede sempre una novità da noi ed essere “novità” a volte non risulta così immediato. A Natale celebriamo sempre lo stesso evento, la nascita di Gesù tra gli uomini avvenuta a Betlemme duemila anni fa, ma ricordare ogni anno questa nascita provoca in noi una domanda che ci disturba. E grazie a Dio ci disturba! Cosa significa per noi oggi il mistero dell’Incarnazione? Come la nascita di Cristo, questo irrompere di Dio nella storia degli uomini cambia la mia, la nostra vita oggi? Il Natale, quindi, deve essere necessario nella nostra riflessione di Chiesa, nella nostra riflessione di uomini e donne del III millennio.
Verrà la pace?
Sì, sono convinto, la pace verrà! Sarà necessario che ognuno di noi perda qualcosa nei confronti dell’altro, e così sarà più credibile il suo desiderio di pace, la sua volontà di pace. Bastano piccoli gesti, piccole scelte. Ce lo ripeteva già Cristo duemila anni fa. Se così faremo la pace vera verrà! Auguri a tutti!

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