mercoledì, 07 maggio 2025
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Veneto: ancora troppi capannoni sfitti

Un viaggio in treno o in auto attraverso il territorio veneto dà spesso modo di notare la scarsità di aree non occupate da capannoni, fabbricati artigianali, costruzioni industriali. Un’impressione che vede la sua conferma nell’ultimo studio commissionato dalla Confartigianato e realizzato da Smart Land, che ha rilevato che il Veneto si aggiudica un non troppo esemplare primato per superfici di edifici pro capite, con 147 m2 ad abitante (a fronte di una media nazionale di 90 m2); 1 capannone su 10 è inutilizzato, per un totale di 9.200 “buchi neri”, generati da una fase di espansione speculativa che ha segnato profondamente la nostra regione. “Si tratta di una immagine reale ed emblematica del nostro territorio, che da un lato ha vissuto la bolla speculativa dei capannoni costruiti in sovrappiù grazie a facilitazioni fiscali o per pura speculazione sugli incentivi, ma che oggi ci presenta il conto e mette davanti due criticità - osserva il presidente della Confartigianato Imprese Città Metropolitana di Venezia, Siro Martin -. Da un lato si è sprecato inutilmente territorio, dall’altro immobilizzato o comunque congelato i capitali investiti per costruire queste cattedrali nel deserto”.

Rispetto al precedente studio di Confartigianato, emerge tuttavia una nota positiva: dal 2016 al 2022, dopo un periodo di stagnazione, il mercato di questi immobili è ripreso, e negli ultimi sei anni i capannoni in disuso sono calati del 10,1% con il riutilizzo di 171 edifici. “In base alle stime fatte sui 19 Comuni campione presi in esame, abbiamo visto che in alcuni casi i capannoni sono stati riutilizzati così come sono, perché rivelatisi adatti alle condizioni di uso dell’azienda; in altri casi, anche se più rari, iniziano a essere effettuate demolizioni per poi costruire degli stabili più adeguati alle esigenze delle aziende; in altri casi ancora si sono avuti dei frazionamenti, quindi il capannone di una dimensione considerevole è stato suddiviso per creare spazi più piccoli rispetto a quello che è il capannone standard da 2.000 m²”, spiega Federico Della Puppa di Smart Land. “Il problema rimane il riuso per il settore logistico, che necessita di spazi più grandi: anche se quello è il comparto che oggi è in maggiore sviluppo, non riesce a trovare risposta nelle vecchie strutture, anche quelle che erano state pensate per la logistica, ma di trent’anni fa. In generale notiamo che c’è un buon incontro tra piccole attività artigianali o industriali, che però spesso hanno anche bisogno di spazi con particolari caratteristiche, anche di immagine. Ad esempio, abbiamo visto casi di riuso in cui si è riusciti a mascherare l’aspetto precedente del capannone, posizionando delle nuove pareti o realizzando dei trompe l’oeil, sostanzialmente delle strutture che mascherano la struttura precedente trasmettendo un’immagine dell’azienda esteticamente migliore”.

Le sole demolizioni dei capannoni inutilizzabili e la conseguente rinaturalizzazione e rimboschimento del territorio “liberato” rimangono ancora soluzioni residuali: “I casi in questo senso sono ancora pochi - prosegue Della Puppa -. La Regione sta dando dei contributi per incentivarle, ma siamo in una fase iniziale, c’è ancora da capire effettivamente la potenzialità dello strumento. Ricordo un caso esemplare in questo senso nella Pedemontana, nel comune di Follina, dove sono stati demoliti 2/3 di un capannone di 20.000 m². I 7000 m² sono stati riqualificati e, una volta terminate le demolizioni, il resto del terreno sarà reso area verde, dato che l’azienda che l’ha acquistato ha necessità di avere non solo una sede logistica e distributiva, ma anche un luogo in cui esporre i propri prodotti e avere un ritorno di immagine”.

Un altro possibile uso dei capannoni dismessi ha a che fare con un tema particolarmente sentito nei ultimi tempi: quello dell’efficientamento energetico. “L’utilizzazione dei tetti per installare pannelli fotovoltaici ai fini della produzione energetica, che oggi avrebbe ancora più senso non solo per le potenzialità di questo tipo di interventi, ma anche per la possibilità di costruire comunità energetiche, è un altro tema importante, in direzione del quale si sta provando ad agire. A questo scopo stiamo aspettando da oltre un anno il decreto attuativo a livello nazionale, che a cascata permetterà di procedere ai decreti regionali e locali”.

Il picco negativo di capannoni abbandonati si è avuto nella fase post-crisi del 2008, una delle cause più impattanti sull’alto numero a livello regionale. Ma non la sola: tra le altre anche speculazioni legate ad agevolazioni fiscali. “I decreti Tremonti 1 e Tremonti 2 hanno permesso negli anni Novanta di reimpiegare gli utili aziendali per costruire capannoni. Per questo furono fatti investimenti anche in assenza di utilizzazione in un momento espansivo dell’economia. Dopo la crisi economica del 2008, in cui molte imprese hanno delocalizzato o sono fallite, molte di queste strutture sono rimaste lì in attesa di utilizzo. Chi le aveva costruite pensava che un giorno avrebbe avuto un ritorno da quegli investimenti, ma quelle tipologie di fabbricati oggi valgono sostanzialmente zero. Questo è un tema difficilissimo da far passare agli imprenditori, i quali pensano che, avendo realizzato una cubatura, quella abbia un valore indipendentemente dal mercato: in realtà è più simile a un’automobile a fine vita, per la quale bisogna pagare anche per la rottamazione. Ecco perché molti preferiscono tenerli inutilizzati, dopo aver staccato le utenze. Inoltre, eliminando il tetto o parte di esso, il capannone viene declassato, cosa che permette di non pagare nemmeno l’Imu. A livello regionale, abbiamo stimato che ben 4 capannoni su 10 (il 41%, pari al 30% in termini di superficie) rimarranno difficilmente riutilizzabili per la loro scarsa attrattività, mentre un capannone su 5 di questo patrimonio non avrà altra prospettiva che la demolizione”.

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