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Il manifesto Voci ebraiche per la pace

Sullam, storico dell’età contemporanea all’Università Ca’ Foscari di Venezia, importante studioso dell’antisemitismo e uno fra i firmatari di questo appello: “No a spostamenti forzati di palestinesi”
27/03/2025

Nelle scorse settimane, circa 200 intellettuali italiani, alcuni dei quali di origine ebraica, hanno aderito a un manifesto, promosso da Lea - Laboratorio ebraico antirazzista -, e da Mai indifferenti. Le due reti, voci ebraiche per la pace, si battono per una giusta pace in Medio Oriente in opposizione alle politiche di segregazione e occupazione in Palestina, e contro l’antisemitismo e ogni forma di razzismo presente all’interno delle nostre società.

Il documento, rilanciato e sottoscritto sui social da numerose persone che condividono l’iniziativa, recita: “Trump vuole espellere i palestinesi da Gaza. Intanto in Cisgiordania prosegue la violenza del governo e dei coloni israeliani. Ebree ed ebrei italiani dicono no alla pulizia etnica. L’Italia non sia complice”.

Per conoscere le motivazioni di questo documento e per spiegarci da vicino le responsabilità dell’Italia in questa guerra, abbiamo intervistato il professor Simon Levis Sullam, storico dell’età contemporanea all’Università Ca’ Foscari di Venezia, importante studioso dell’antisemitismo e uno fra i firmatari di questo appello. Sullam definisce la sua posizione post-identitaria, verso il mondo ebraico: “Ho utilizzato questa espressione per definire il mio personale atteggiamento verso il mondo ebraico: non si tratta di una definizione dell’appello o dei suoi sottoscrittori. Mi riferisco a un’appartenenza che inevitabilmente esiste, ma che è stata criticata, rielaborata, anche sulla base dei miei studi, e in qualche modo superata, certamente sul piano religioso”.

Per molti italiani la guerra a Gaza può sembrare assai distante dal nostro contesto, ma non è così. Nel testo mettete in guardia sulle complicità dell’Italia in questa guerra: a quali vi riferite?

È nota la vicinanza ripetutamente espressa dal Governo italiano, guidato da Giorgia Meloni, sia al Governo israeliano di Benjamin Netanyahu che, più di recente, all’Amministrazione Trump. Per questo motivo, abbiamo voluto mettere in guardia l’Italia dal sostenere progetti di spostamento forzato dei Palestinesi di Gaza (o della Cisgiordania).

Il vostro appello ha portato in superifcie una serie di lacerazioni presenti da tempo nella comunità ebraica italiana: nei mesi scorsi, un eminente esponente come Dario Calimani aveva criticato aspramente un report di Amnesty international, accusandolo di “antisemitismo”. Cosa ne pensa?

Non voglio entrare nel merito del giudizio di altri, che ricoprono per altro cariche istituzionali, ma la critica di Calimani riguardava a mio avviso innanzitutto l’utilizzo del termine “genocidio”, riferito alle operazioni militari israeliane a Gaza. Su questo termine vi è un dibattito, nell’opinione pubblica e tra studiosi di diverse discipline, oltre a valutazioni giudiziarie in corso da parte dei Tribunali internazionali dell’Aja. Personalmente, in un intervento online in “Le parole e le cose”, ho parlato di “conseguenze genocidarie”, più che di genocidio.

Nonostante l’8 ottobre 2023 Netanyahu venisse dato politicamente morto, a oggi è ancora primo ministro di Israele, al prezzo di aver esasperato la conflittualità interna ed esterna. Sarà sempre lui a firmare la pace?

Credo che la pace tra israeliani e palestinesi verrà firmata, non so quando e, penso, non presto: certo, non dalle attuali leadership israeliana e palestinese, ma da futuri leader e nuove classi dirigenti, che non hanno partecipato alla tragica crisi in corso dal 7 ottobre e successivi sviluppi. Anche se va ricordato che nella storia di Israele sono stati anche e forse innanzitutto Governi di destra a firmare accordi di pace: penso, in particolare, alla pace di Israele con l’Egitto di Sadat, firmata nel 1978 da Menachem Begin, leader del partito conservatore Likud.

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