Come sempre, per l’occasione, la “Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia...
Puoi togliere l’italiano dall’Italia ma non l’Italia dall’italiano
La sera del 9 ottobre, mentre seguivo la struggente diretta dai paesi di Erto e Casso, ho ricevuto un whatsapp con la foto di un bel pane fatto in casa e il commento “Puoi togliere l’italiano dall’Italia, ma non l’Italia dall’italiano”.
“Facciamo una cena tra italiani con proiezione dello spettacolo di Paolini, mancava da portare il pane, perciò, l’ho fatto io”.
Immagino l’annessa bottiglietta di “quello giusto”, in queste tavolate di trentenni, fratelli e sorelle nelle scelte, dove si incontrano, senza pregiudizi, il nostro Raboso con la frisella pugliese e la piadina romagnola.
Certo, nella serata dedicata alla riflessione sull’immane tragedia del Vajont un panino bianco, triste e inglese era davvero impossibile da mettere in tavola.
Lasciare famiglia e patria: esperienza a tratti difficile, ma incredibilmente formativa dal punto di vista umano.
Quante cose, infatti, si imparano da un’esperienza all’estero fatta in gioventù: a fare senza la cucina di “Mami” e il portafoglio di “Papi”, innanzitutto.
Ad amare l’Italia con le sue genialità e le sue... meschinerie.
A fare quasi famiglia tra persone con provenienze distribuite su tutta la lunghezza della nostra penisola.
E, naturalmente, a sviluppare competenze “soft” cioè umane, ma richieste nel mondo del lavoro avanzato quali: autoconsapevolezza, responsabilità, flessibilità, empatia, capacità di affrontare e superare le proprie paure, qualità organizzative, di trovare soluzioni ai problemi e prendere decisioni.
Vivere all’estero è un’opportunità unica di crescita e di confronto: dice inequivocabilmente sulla propria capacità di adattarsi, gestire imprevisti, prendere autonomamente decisioni rilevanti, tollerare l’ansia per tutto ciò che è nuovo e sconosciuto.
E, ovviamente, contribuisce in modo determinante alla formazione del così detto “global mindset” cioè le competenze interculturali che si maturano solo se ci si espone alle altre culture, ma non giocando in casa.
Lavorare con colleghi stranieri apre anche gli occhi su retribuzioni eque rispetto al costo della vita, parità salariale tra uomini e donne, possibilità di conciliare senza sacrificare famiglia e lavoro.
Naturalmente non è tutto rose e fiori.
Il Rapporto Migrantes più recente spiega che quasi sessanta milioni di italiani vivono all’estero, un’altra Italia cioè.
Mezzo milione sono veneti.
Quasi metà hanno meno di quarant’anni, quindi, non sono di certo il nonno partito con la valigia di cartone.
Dalla crisi del 2008 a partire sono, in crescendo annuo, principalmente giovani con laurea dai venticinque ai trentaquattro anni, per motivi di lavoro o di ulteriore studio.
Partono anche molti giovani con competenze tecniche e pratiche che ci hanno sempre distinto nel mondo, solo nominando il settore della ristorazione, dell’edilizia e dell’artigianato in generale.
Un terzo dei ragazzi italiani oggi si dice pronto ad andare all’estero per trovare migliori condizioni di lavoro e di vita.
L’80% di loro si dichiara fiducioso nel futuro in generale, ma meno per quel che riguarda l’Italia.
Praticamente tutti dichiarano di voler tornare se si creassero le condizioni.
Il punto è proprio questo: agli italiani e alle italiane servono l’autentica libertà di emigrare come quella di rimpatriare, evitando l’attuale silenziosa e impressionante perdita di capitale umano e sociale.
Tornando, però, al positivo del fenomeno, davvero Voltaire ne disse una giusta affermando che “E’ ben difficile, in geografia come in morale, capire il mondo senza uscire di casa propria”.