In particolare, di fronte alle autorità belghe, il Pontefice, oltre a ritornare sullo scandalo degli...
A Dakar insieme ai migranti grazie al Servizio civile con Caritas
Mi chiamo Maria, ho 28 anni, sono nata e vivo a Treviso. Sono da poco rientrata dal Senegal, dove ho dedicato un anno al servizio civile universale, all’interno di un progetto di Caritas italiana. Sono partita a giugno 2023 e rientrata dopo undici mesi, nel maggio 2024. Nel mezzo ho vissuto fra i mesi più difficili, particolari ed entusiasmanti della mia vita. Da dove iniziare a spiegare?
La scelta di partire
La scelta di partire per me è stata molto più lineare che di strappo, direi, nonostante cambiare continente abbia costituito, in effetti, un bello strappo alla routine. Ma è stata anche una decisione lineare, considerando i miei studi e i miei obiettivi professionali: mi sono laureata in Scienze filosofiche, per poi intraprendere un master relativo al diritto migratorio e alla progettazione sociale, con l’obiettivo di lavorare a contatto con la popolazione migrante. Dopo gli studi ho iniziato a lavorare qui in Veneto nella seconda accoglienza, ovvero nei servizi rivolti a rifugiati e richiedenti asilo. Ero a conoscenza della realtà del servizio civile e delle possibilità che esso offre nell’ambito della cooperazione internazionale. Vi sono numerose ong che aprono delle posizioni ogni anno attraverso il sistema del servizio civile internazionale negli ambiti più svariati, dai progetti per lo sviluppo agricolo, a quelli di sostegno scolastico, dai servizi rivolti agli anziani fino alle commissioni per la pace in contesti di conflitto etnico. Quindi tenevo d’occhio il bando e, alla fine, ho trovato un progetto della rete Caritas a supporto dei migranti, con sede nella capitale del Senegal, Dakar.
La chiamata
Ricordo bene il giorno in cui ricevetti “La” chiamata, come la chiamavano i colleghi civilisti, ovvero la chiamata da Roma in cui mi dissero che mi avevano presa e che nel giro di poche settimane avrei dovuto lasciare tutto e partire. Era mattina, stavo guidando per andare a lavoro. Dopo che terminò la chiamata, accostai sul ciglio della strada e mi sciolsi in lacrime. Ed eccoci qui, un anno e mezzo dopo, dopo molto sudore, molta polvere, molta fatica e moltissimo amore dato e ricevuto.
L’attività in Senegal
Che cosa facevo esattamente in Senegal? Il progetto a cui ho lavorato per un anno si chiama Pari, ovvero Point d’accueil pour les immigrés et les réfugiés, centro d’ascolto per rifugiati e migranti. Le attività si dividevano fra attività di sportello e attività sul campo. Come sportello, mi occupavo di accogliere le persone, dar loro uno spazio sicuro in cui sentirsi ascoltate. Capire le esigenze della persona e cercare di pianificare insieme una strategia di azione: per alcune si trattava di bisogni concreti, come le cure mediche di base, delle cui spese lo sportello poteva farsi carico, o di formazione professionale, e, in quel caso, avevamo degli enti di formazione con cui metterle in contatto. In altri casi erano bisogni più complessi: numerose le donne vittime di abusi, donne e uomini vulnerabili arrivati in Senegal alla ricerca di un futuro migliore, ma senza strumenti per iniziare a costruire qualcosa, o ancora tantissimi senza fissa dimora, una vedova ripudiata dalla famiglia del marito, un ragazzo minorenne che non riusciva a mettersi in contatto con la famiglia nel Paese di origine.
Le attività sul campo erano costituite dai follow up delle famiglie a cui avevamo dato un sussidio per pagare l’alloggio, oppure dalle commissioni al mercato per fornire alle donne finanziate tutto l’occorrente per iniziare un’attività lavorativa - lievito, farina, olio e zucchero per chi cominciava un commercio di street food, aghi fili e perle per chi avviava un atelier di sartoria. Giornate assolate in cui facevamo il giro di tutte le bancarelle e passavamo delle mezze ore a contrattare il prezzo della farina con il commerciante, io e la signora con bambino sulla schiena, che avrebbe, poi, fatto tutta la strada a piedi fino a casa con un carico di materiale sulla testa e uno di speranza rinnovata nel cuore.
Le difficoltà
Vi sono state difficoltà? Certamente non è stato tutto facile, anzi. Specialmente i primi mesi sono stati tosti, dovendo fare l’abitudine a così tante novità: il clima caldo umido della stagione delle piogge, il chiasso e l’inquinamento onnipresenti a Dakar, come in tutte le metropoli africane, molto più che in qualsiasi capitale europea; poi, l’invadenza delle persone, la necessità di esprimermi sempre in una lingua straniera, la lontananza da casa, le modalità per me totalmente inedite in cui lì funzionano i rapporti interpersonali. Metterei l’accento soprattutto su quest’ultima cosa, in apparenza secondaria, ma in realtà di primaria importanza: il modo in cui le persone comunicano e stanno insieme, le aspettative che i colleghi nutrivano su di me, ciò che è considerato cortese e ciò che costituisce mancanza di rispetto... fanno tutti parte di un codice culturale non scritto e che tuttavia bisogna imparare a maneggiare per riuscire a introdursi in un contesto nuovo. Ci è voluto un po’ di tempo e ho dovuto passare attraverso alcuni fraintendimenti, ma alla fine, gradualmente, ci sono arrivata. E da quel momento ogni aspetto della mia giornata è divenuto più facile, nel rapporto con i colleghi, così come nella contrattazione col pescatore al mercato del pesce.
I frutti del servizio civile
Quali frutti ho raccolto dall’esperienza? Il servizio civile con Caritas mi ha lasciato talmente tanto che trovo difficile metterlo nero su bianco, ma ci proverò. E’ stata un’esperienza fruttuosa sia in senso professionale sia in senso umano. A livello professionale, mi sono state date responsabilità organizzative anche importanti: ho imparato a gestire le richieste dei nostri beneficiari, a portare avanti i colloqui con persone provenienti in situazioni delicate, a proporre soluzioni discutendo dei casi con l’équipe. E’ stato un lavoro vario, che ha richiesto anche una certa dose di creatività. Dopo alcuni mesi, ho ideato e scritto insieme all’altra civilista italiana un piccolo progetto per l’istituzione di un corso di formazione in sartoria con microcredito, volto a favorire l’autonomizzazione di 18 donne vulnerabili. Una bella avventura.
Esperienza di relazioni
A livello umano ho avuto la meravigliosa opportunità di immergermi completamente in un contesto culturale davvero diverso. Ho sentito il calore del condividere il pasto quotidiano dalla capiente ciotola posata in centro alla stanza. Ho imparato a dividere l’unico pesce sul piatto porgendo a ognuno la sua parte, prima di prendere la mia. Ho imparato a chiedere al passante per tre volte come sta (l’onnipresente “ça va?-ça va” che funge da domanda come da risposta), prima di chiedere l’indicazione stradale per cui l’avevo fermato. Ho capito che durante il Ramadan non mangi e non bevi, punto, perché è scortese e poco importa che tutti i colleghi nella stanza siano cristiani come te. Ho imparato a rispondere a un invito di matrimonio regalando una capra e una cassa di birre la settimana prima, perché è contando su quei regali che si prepara la festa. Ho imparato a guardare in faccia la povertà, l’insicurezza nel domani, ho vissuto con persone che letteralmente non sapevano dove avrebbero dormito quella sera. Ho pregato insieme a loro e loro sono state per me un grande esempio di fede. Ho gioito insieme a Madame Georgette e alla sua famiglia della Repubblica Centrafricana, perché il regalo della Caritas di una bombola di gas e di una cesta di alimentari avrebbe potuto assicurare il cibo in tavola per qualche settimana. Ho sofferto insieme ad Alassane, ivoriano, perché la sua ambasciata gli ha negato il sussidio necessario a tornare dalla sua famiglia. Ho lavorato insieme a Fatoumata, congolese, finché non siamo riuscite a trovare una casa in affitto per lei e i suoi tre bambini: una camera di 13 metri quadrati con bagno condiviso, ci entravano a malapena i materassi, ma da lì si può ripartire a costruire una vita.
Parte di una nuova realtà
Insomma, il piccolo ufficio di Caritas è stata la soglia attraverso cui sono entrata in punta di piedi in una realtà nuova, fino a diventarne parte. Un modo di vivere che mi è entrato dentro e mi ha trasformato, quasi senza che me ne accorgessi, giorno dopo giorno. Cosa mi rimane, ora che sono tornata? Sarò per sempre un po’ italiana e un po’ senegalese, continuerò ad apprezzare il silenzio di una tranquilla passeggiata nella mia Treviso, ma, al contempo, cercherò sempre quella convivialità improvvisata e spontanea che il Senegal mi ha insegnato, dove ci sarà sempre qualcuno pronto ad aiutarti. Anche a farsi gli affari tuoi, certo, ma sempre per aiutarti. La seconda frase più pronunciata, dopo, ovviamente, a “ça va”? “On est ensemble”. Qualunque cosa succeda, siamo insieme.
In conclusione, consiglio vivamente il servizio civile, soprattutto quello internazionale. Si tratta di un’occasione speciale per noi giovani, anche per quelli che non sognano di proseguire la loro carriera all’estero, ma semplicemente hanno la curiosità e la volontà di mettersi al servizio degli altri, in un contesto diverso e un po’ più sfidante rispetto a quello di casa. Certamente richiede tenacia, pazienza e spirito di adattabilità, tuttavia posso dire senza dubbio che ripaga gli sforzi.